I conti pubblici americani e inglesi peggiorano. Ma sia i titoli di stato sia le agenzie di rating non segnalano il trend. Per Washington conta il potere di signoraggio. A Londra si aspettano le elezioni. Il nodo delle valutazioni efficienti.
Il debito pubblico degli Stati Uniti, nel 2009, rappresentava il 70% del Pil; nello stesso anno il deficit di bilancio ha toccato la stratosferica cifra di 1.400 miliardi di dollari che, secondo il budget della Casa Bianca, nell'esercizio in corso diventeranno 1.556 miliardi: cioè, il 10,6% del Prodotto interno lordo. Dall'altra parta dell'Oceano atlantico, sempre nel mondo anglosassone, il rapporto debito/Pil dell'Inghilterra si è attestato, nel 2009, a quota 68,5 per cento. E le stime sono per una veloce crescita: il 79,5% nel 2010 e l'88,5% per il 2011. Certo, si tratta di numeri di eccellenza rispetto, per esempio, a quelli italiani. E, tuttavia, in questo periodo di allarme per i conti pubblici di mezza Europa i mercati non sembrano prezzare il peggioramento contabile di Londra e Washington. Il Sole24ore.com, senza alcuna pretesa di completezza, ha tentato di capire il perché.
Il debito a stelle e strisce ricomprato dalla Fed
Nonostante la negativa dinamica sia del deficit sia del debito a stelle e strisce, i mercati non la individuano sui loro radar. Basta dare un'occhiata alla curva dei rendimenti: il quinquennale americano rende attorno al 2,2 per cento, mentre il decennale ha un yield del 3,6 % e il trentennale è al 4,65 per cento. Valori un po' troppo bassi rispetto, per esempio, al Bund della Germania che, vale la pena ricordare, ha una dimanica del deficit molto migliore. «È la conseguenza dell'eccesso di liquidità immessa nel sistema per salvare i mercati», aveva già spiegato al Sole24ore.comJim Rogers, uno dei grandi investitori di Wall Street. Le solite big investment bank di Wall Street usano i soldi prestati dalla Fed per acquistare i Treasury, alzando così i prezzi e tenendo schiacciati i rendimenti. Quegli stessi Treasury che poi, attraverso il quantitative easing, la Banca centrale americana si ricompra in un "giochino" che, con l'avvio della exit strategy, dovrà prima o poi finire. «Non sono troppo d'accordo - ribatte Luca Cazzulani, esperto di reddito fisso di UniCredit - Va ricordato che il costo del denaro negli Usa è, di fatto, a zero. A fronte di un'emissione biennale che rende lo 0,79% uno yield del 3,6% sul decennale è già abbastanza». Insomma, la curva dei rendimenti sarebbe sufficientemente inclinata. Ciò non toglie però che, di fronte alla nuova dinamica della contabilità pubblica americana, qualche segnale in più dalle emissioni governative dovrebbe arrivare. Ma questo non accade. E le stesse quotazioni dei Cds sugli Usa, attualmente attorno a quota 50, non segnalano alcunché. Sempre che, ovviamente, si voglia dar credito proprio a quegli Credit default swap le cui quotazioni, negli ultimi mesi, sono state "falsate" da una fortissima speculazione.
Il rating Usa, un caso a parte
Forse l'indicazione dovrebbe arrivare dalle agenzie di rating. Com'è noto, il merito di credito degli Usa è la "fulgida" Tripla «A» con outlook «stabile» (S&P's). Perché non paventare, in maniera molto soft, almeno un semplice ragionamento sull'outlook? «Non ha senso - ribatte con forza Joel Naroff, noto economista Usa indipendente - Un passo di questo tipo vorrebbe dire, giocoforza, che si pensa ad una revisione del rating. Cui potrebbe seguire l'ipotesi che gli Stati Uniti, seppur in un'ipotesi lontanissina, potrebbero diventare insolventi sul qualche emissione. Un vero e proprio non sense. In realtà - dice Naroff - gli Stati Uniti sono un caso a parte, e come tale devono essere valutati». E proprio quest'affermazione, paradossalmente, sembra confermare il trattamento comunque "a parte" degli Usa. «Se si applicassero i criteri dei paesi emergenti - articola maggiormente Luca Mezzomo, responsabile dell'ufficio studi di Intesa Sanpaolo - la tripla "A" non ci sarebbe già da un pezzo. Ma gli Stati Uniti hanno un'economia dinamica e molto più flessibile rispetto a quella di altri stati industriali», tale da giustificare le attuali valutazioni. «E poi, non può dimenticarsi un altro aspetto importantissimo». Vale a dire? «Con la loro moneta fanno signoraggio. Le banche centrali acquistano enormi quantità di asset in dollari, usando il bliglietto verde come attività di riserva». Il che dà una notevole forza all'economia Usa e mette "pressione" alle agenzie di rating. Un eventuale abbassamento del merito di credito provocherebbe uno squilibrio sui Treasury difficile da far digerire alle banche centrali, in particolare a quella cinese. Più tranchant la visione di Angelo Drusiani, esperto obbligazionario di Banca Syz: «L'economia Usa e inglese sono certamente più elastiche e affronteranno meglio la crisi - dice - Tuttavia, le agenzie di rating sono di origine anglosassone. Come non pensare, se non a pressioni, almeno ad una vicinanza culturale-finanziaria con Washington e Londra?».
Le cambiali della City
Il fuoco di sbarramento in difesa degli Usa, che i mercati da tempo mettono in campo, sembra diminuire se si guarda alla Gran Bretagna. «Fino ad oggi - spiega Cazzulani - l'enorme quantità di debito stampato dall'Inghilterra è stato "digerito" grazie al programma di quantitative easing della Bank of England: circa 200 miliardi di sterline. Di recente, pero, la stesa BoE ha iniziato a dare qualche segnale sulla possibile stretta di politica monetaria. Una strategia che ha innervosito i mercati». Tanto è vero che, al di la della speculazione, i Cds dell'Inghilterra sono ora quota 91, ben più in alto di quelli Usa. Rispetto a Londra poi, gli esperti sottolineano che il mercato è in una sorta di stand by: gli operatori "aspettano" le elezioni politiche di primavera per capire se i programmi di taglio della spesa pubblica potranno realmente concretizzarsi. «Dopo il voto - dice Mezzomo - vedremo la legge di budget inglese. A quel punto si capirà la reale dinamica della spesa pubblica e la capacità di reazione dell'economia».
Quale crescita dell'economia?
Già l'economia. Un leit motive, sia per gli Stati Uniti sia per la Gran Bretagna, è che vantando un tessuto industriale più dinamico e flessibile usciranno meglio dalla crisi. Con il che il debito crescente non diventerà un problema strutturale. Però le stime sull'incremento della cambiale statale americana, che tanto fanno tremare i polsi al Congressi Usa, già implicitamente prevedano tassi di crescita elevati. Nell'ultimo trimestre 2009 il Pil Usa è cresciuto del 5,7% su base anualizzata. Mentre quello italiano è sceso dello 0,2 per cento. Una differenza abissale, è vero. Anche se il confronto, in realtà, va fatto tra un incremento dell'1,42% e un calo dello 0,2 per cento. Negli Usa, infatti, il numero è sempre annualizzato (cioè è moltiplicato per i quattro trimestri). La differenza con i paesi "periferici", come l'Italia o il Portogallo o la Spagna, rimane notevole ma di nuovo il mercato (e anche i media), sembrano offrire maggiore benevolenza al mondo anglosassone.
In pratica la Fed impone riserve in dollari alle altre banche centrali così da prelevarne il corrispondente signoraggio. Una specie di "currency board" parziale e occulta che dimostra il colonialismo a cui è sottoposto il cosiddetto "mondo libero". Più stupido che libero, però.
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