Governi subprime
Nane Cantatore, AprileOnline, 15 febbraio 2010, 21:52
Economia La Goldman Sachs avrebbe aiutato il governo di Atene a truccare i conti per permettere alla Grecia di rimanere agganciata ai parametri europei: pubblico e privato rivelano una totale osmosi nella gestione della finanza, in un contesto economico dominato dalla finzione
Spiegel (link) e New York Times (link) hanno rivelato che il governo di Atene si sarebbe rivolto alla Goldman Sachs in almeno due occasioni, nel 2001 e nel novembre 2009, per avviare operazioni di maquillage finanziario sul suo debito pubblico. Stando a queste fonti, l'istituto finanziario avrebbe intascato circa 300 milioni di dollari in parcelle per la messa a punto di prodotti finanziari derivati, spesso camuffati da operazioni valutarie, al fine di diluire l'indebitamento delle finanze pubbliche greche. In parole povere, la Grecia avrebbe acquisito liquidità in cambio della cessione di entrate future, senza registrarle come passività: in questo modo, i conti pubblici sono stati pesantemente ritoccati, ma l'indebitamento reale è cresciuto.
Un esempio in questo senso è l'operazione "Aeolos", un prestito del 2001 garantito dagli introiti futuri dei diritti aeroportuali, mentre con "Ariadne" sono stati impegnati nel 2000 i proventi delle lotterie: di fatto, le finanze greche si sono indebitate rinunciando a entrate future, e le due operazioni sono state registrate come vendite e non come prestiti, dunque come entrate e non come uscite. Il bello è che Goldman Sachs ha ceduto in seguito i suoi crediti alla Banca nazionale greca, il principale istituto di credito del Paese, che li ha registrati a nome di una nuova entità denominata Titlos, utilizzando i bond emessi da questo soggetto come garanzia collaterale per ottenere prestiti dalla Bce, con il risultato di un ulteriore appesantimento della situazione finanziaria greca.
Operazioni del genere, anche se meno spericolate, sono state realizzate dal governo italiano nel 1996, con un paio di trucchetti attuati dal primo governo Prodi per rendere possibile l'ingresso nell'euro, con il risultato di un ulteriore appesantimento degli interessi sul debito. Proprio il peso di questi interessi, del resto, è il problema più grosso per le economie europee in maggiore difficoltà, come la greca, la spagnola e, appunto, la nostra: il salvataggio progettato per l'economia ellenica, se riuscirà a salvaguardare l'euro, si tradurrà comunque in una forte stretta alle finanze pubbliche di quel Paese, e potrà tradursi in una fonte di finanziamento per i Paesi coinvolti nel salvataggio, che devono comunque fare i conti con pesanti previsioni di uscite. Si capisce allora perché la Germania sia così disponibile ad aiutare i greci, anche al di là dei desideri di egemonia continentale.
Questa vicenda dovrebbe, comunque, aprire una riflessione di più ampia portata, che sembra necessaria se si vuole trovare un modo per uscire dalla crisi finanziaria senza ridursi, come gli Stati Uniti di Obama, al passaggio dall'indebitamento dei consumatori a quello pubblico. Se è noto che il rigore monetarista del patto di stabilità ha messo a dura prova la capacità di spesa dei governi continentali, con pesantissimi costi sociali, oggi se ne coglie un altro effetto perverso: proprio l'obbligo di soddisfare i requisiti europei ha indotto alcuni governi, in condizioni di oggettiva difficoltà, a ricorrere a operazioni di cosmesi finanziaria per evitare di pagare prezzi politici troppo elevati. In questo modo, paradossalmente, sono state le regole di bilancio a rendere possibili, se non necessarie, operazioni finanziarie altamente tossiche.
Del resto, tutto ciò è stato reso possibile da quel fenomeno di creazione di una gigantesca massa di liquidità, concentrata nelle mani di pochi operatori finanziari proprio grazie allo sviluppo incontrollato di prodotti derivati: questi soggetti si sono pertanto trovati in condizione di presentarsi come partner credibili a chiunque, persino ai governi nazionali. La finanza pubblica è così divenuta, più che uno strumento per la gestione di servizi di pubblico interesse, un campo di possibili interventi speculativi, con regole ancora più lasche di quelle presenti sui mercati "normali".
Il risultato è che i cittadini si sono trovati sottoposti a una triplice pressione: da un lato, quella di un rigore finanziario che ha accresciuto la pressione fiscale riducendo la spesa per i servizi sociali e le opere di interesse comune, dall'altro quella dell'appesantimento degli interessi sul debito, e quindi di una prospettiva di ulteriore crescita di questa pressione, e infine quella dell'indebitamento privato, reso possibile proprio dalla massa di denaro sottratta ai cittadini a favore degli istituti di credito. Si tratta di un meccanismo destinato a esplodere, e sembra proprio che le diverse politiche sviluppate per contrastare la crisi finanziaria non facciano altro che riproporre, sotto diverse forme, questo gioco.
La soluzione non sembra possa trovarsi in regole più stringenti per le banche, per due motivi: da un lato, le diverse condizioni in cui si trovano gli istituti di credito in diverse parti del mondo (ad esempio, le regole proposte da Obama non darebbero nessuna garanzia in più per le banche europee, già ben più controllate di quelle americane, mentre si tradurrebbero in pesanti aggravi per la loro operatività); dall'altro, il sistema dei derivati è già il prodotto di un apparato di regole e norme che rendono possibile la trasformazione dei capitali a partire dalla loro impiegabilità universale, e introdurre maggiore trasparenza servirebbe a ben poco, fin tanto che resta in piedi il dogma finanziario. Quello che si dovrebbe fare è pretendere dai governi una reale trasparenza sull'impiego delle entrate pubbliche e sullo stato reale dell'indebitamento, stabilendo dei vincoli chiari e inderogabili sui beni pubblici alienabili: in questo modo, si ridurrebbe drasticamente la finanziarizzazione dell'economia reale e la sua dipendenza dal denaro gonfiato. Tutto ciò potrebbe passare, in Europa, per un allentamento dei vincoli di stabilità in funzione delle politiche di sviluppo e redistribuzione, in modo da creare una prospettiva economica di sostenibilità a lungo termine, e non una corsa verso il baratro dei subprime.
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