Fonte: Conflitti e strategie
Da Pomigliano D'Arco a Mirafiori, passando per Termini Imerese. La storia si ripete come farsa. Marchionne impone e dispone, governo e opposizione se ne lavano pilatescamente le mani e sindacati, un tempo "compagni", ora colletti bianchi più affaristi che mai, si appellano alla "ragionevolezza" degli operai per infilarglielo beatamente in quel posto, previo vaselinamento.
Cinquant'anni di conquiste sociali spazzate via con un unico colpo di spugna sferrato del maglioncino umano, che sta inanellando un successo dopo l'altro. Un ricatto qua, una provocazione là e il gioco è fatto. C'era da aspettarselo. La creazione di una "new company" da non iscrivere assolutamente alla Confindustria, nota congrega di benefattori, in modo da eludere i vincoli del contratto nazionale di categoria al fine di trattare direttamente con i lavoratori era da considerarsi niente meno che il preludio all'attuale deriva autoritaria del Lingotto. Marchionne, in quella che alcune anime belle hanno avuto l'ardire di definire "trattativa", ha gettato sul tavolo un ultimatum a governo e dipendenti, minacciando che se questi ultimi non si fossero decisi a rinunciare definitivamente al contratto nazionale di categoria e ad accettare orari e ritmi di lavoro assai più intensi, lo stabilimento di Mirafiori avrebbe chiuso i battenti, e il governo si sarebbe ritrovato a placare i malumori di qualche migliaio di disoccupati in più. I sindacati (con l’eccezione della FIOM), riformisti per antonomasia, hanno chinato il capo, cercando di distogliere l'attenzione generale dal nocciolo della questione e di orientarla verso il miliardo di euro di investimenti promesso in caso di ratifica del sedicente "accordo" da Sergio Marchionne. Bontà sua. Tuttavia, a differenza di quanto blaterato dai tanti ingenui e smidollati "compagni", difensori a spada tratta dei diritti dei lavoratori, che per fustigare Marchionne hanno tirato in ballo "eccessiva" avidità, scarso patriottismo ed altre emerite idiozie consimili, l'anomalia di questa intera vicenda, che dovrebbe portare il governo a porsi alcune domande al riguardo, riguarda la natura del capitalismo italiano; un capitalismo spesso a corto di capitali, che alla concorrenza, e a tutto ciò che essa comporta, privilegia l'assistenzialismo parassitario. Come è noto anche al più ottuso eremita, la Fiat ha sempre ricevuto fior di quattrini dallo stato italiano, senza i quali già da tempo avrebbe dichiarato bancarotta. Suona quindi ridicolo l'appellarsi, da parte di Marchionne, all'inflessibilità delle leggi che regolano il mercato per piegare gli operai italiani ai propri comodi, laddove la Fiat ha passato gli scorsi decenni a reclamare ed ottenere tutti gli "aiuti" di cui aveva bisogno per rimanere a galla. Sostanzialmente, la strategia adottata da Marchionne consiste nel tirare periodicamente la corda, avanzando pretese di volta in volta più drastiche e inaccettabili, al fine di raggiungere l'inevitabile punto di rottura da assurgere prontamente a scusa valida per chiudere un altro stabilimento. L'obiettivo non dichiarato è quello di delocalizzare totalmente la produzione, sfruttando i vantaggi che è in grado di offrire la manodopera a basso costo dei paesi del secondo e terzo mondo. Tutte le multinazionali agiscono in questa maniera, e la simultaneità con cui si muovono sta rapidamente appurando la triste validità della vecchia "legge ferrea dei salari", teorizzata dall'economista inglese David Ricardo, comunemente considerato uno dei padri del liberismo. Costui ebbe la lungimiranza di prevedere che all'interno di un sistema di mercato totalmente aperto e privo di dazi sulle importazioni, i salari sarebbero scesi costantemente, fino a stabilizzarsi sul livello di sussistenza. Ciò è dovuto al fatto che la vera sovrabbondanza d'offerta nel mercato globale è quella di manodopera, teoricamente infinita, sostituibile, riciclabile e ricollocabile. Tuttavia, ragionando in termini marxiani, la “classe operaia” ha saputo coalizzarsi ed escogitare sistemi di difesa e autotutela, che hanno mantenuto la remuneratività del lavoro a livelli piuttosto alti, mentre i governi hanno varato leggi e adottato misure sociali, previdenziali e sanitarie atte a limitarne lo sfruttamento. Dal canto loro, molti imprenditori, sulla scorta di Harry Ford, compresero che solo retribuendo decentemente gli operai sarebbero riusciti ad integrarli nel meccanismo produzione/consumo su cui si regge l'intero sistema. L'emergere di tutti questi indizi ha indotto numerosi miopi economisti a condannare senza appello la legge ricardiana, e a considerarla del tutto campata per aria. Costoro, dall'alto della loro dabbenaggine, non si sono resi conto che né nel corso dell’Ottocento né in gran parte del Novecento sono esistite le condizioni di libero mercato indicate come prerequisiti da Ricardo. La scala dei mercati di allora era per lo più nazionale, racchiusa in ogni singolo paese, in cui l'offerta di manodopera, specializzata e non, era tutt'altro che infinita, sostituibile, riciclabile e ricollocabile. La presenza dello stato si faceva sentire sul flusso dei capitali e delocalizzare le fabbriche in altri paesi presentava numerose difficoltà in più rispetto ad ora. La globalità del mercato si è raggiunta in tempi relativamente recenti, poiché è da pochi anni che le imprese si sono attrezzate per spostarsi tempestivamente là dove le i margini di guadagno sono migliori con la stessa facilità dei singoli individui, usufruendo dell'offerta di manodopera a basso costo letteralmente inesauribile che i paesi in cui vanno a stabilirsi sono in grado di garantire. E sono pochi anni che i paesi nei quali il costo del lavoro è mantenuto alto dalla presenza di vincoli di natura previdenziale e sanitaria si ritrovano minacciati dall'affacciarsi sul mercato di orde di cittadini appartenenti a paesi sprovvisti di questo genere di tutele. La cosiddetta "globalizzazione" non ha fatto altro che mettere in relazione il ricco Occidente con i paesi poveri del secondo e terzo mondo, veri e propri serbatoi di manodopera a basso costo. Esattamente come in due vasi comunicanti il dislivello del liquido contenuto in essi finisce per pareggiarsi, così la forbice che divide la remuneratività dei salari del primo mondo da quelli del secondo e terzo è inesorabilmente destinata a chiudersi. Il che si tradurrà nell’arricchimento loro e nel simmetrico impoverimento nostro. I continui, arroganti diktat di Marchionne che stanno gettando nella disperazione migliaia di operai corrispondono all'aprirsi di nuovi sbocchi lavorativi per la manodopera polacca e serba. Il nostro senso di sconfitta derivante dal prendere atto del costante declino cui è soggetto il nostro tenore di vita corrisponderà alla loro esaltazione legata alle crescenti possibilità di realizzazione in termini di benessere che l'inerzia innescatasi garantirà inesorabilmente. La "legge ferrea dei salari" sta materializzandosi con assoluta pienezza, e Marchionne sta ricordandocela con irritante arroganza, giorno dopo giorno.
Come sempre ci troviamo di fronte ad una visione miope del futuro, e non si tiene conto che l'assenza di un reddito fisso e la precariatà come regola di vita in europa, non possano che generare incertezze e timori negli investimenti, ammesso che qualcuno abbia ancora qualcosa da spendere. Insomma, la crisi è appena cominciata, e non c'è modo di fermarla, almeno fino a che la moneta sarà data a debito, il problema è che non sarebbe mai dovuta iniziare, ma una volta innescato questo processo, mi chiedo: cosa potrebbe fargli invertire direzione se l'input(money=debt) rimane sempre quello?!?
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