25 APRILE, fu vera gloria?
La storia non si celebra, si studia
di Gianfredo Ruggiero
Con l’approssimarsi del 25 aprile si susseguono a ritmo incalzante le rievocazioni storiche delle vicende che hanno portato alla liberazione dell'Italia dalla dittatura fascista e il ricordo delle gesta dei protagonisti. Tutto bene tranne che...
Dei crimini fascisti oramai sappiamo tutto o quasi, ma del lato oscuro della resistenza, quello fatto di vendette e odi personali, di processi sommari ed esecuzioni di massa e delle motivazioni, non sempre nobili, che hanno portato i partigiani a coprirsi il volto e a imbracciare il fucile, cosa sappiamo? Poco, molto poco.
Per motivi anagrafici non ho conosciuto il Fascismo e anch’io, come la maggior parte degli italiani, sono cresciuto a pane e resistenza avendo appreso la storia sommariamente dai libri di testo e dai programmi televisivi. Solo che non mi sono accontentato della verità ufficiale, quella scritta dei vincitori, e ho voluto approfondire le mie conoscenze. Il risultato è stato che man mano colmavo i miei vuoti i dubbi aumentavano. Dubbi che a tutt’oggi nessuno è stato in grado di sciogliermi.
Il primo dubbio riguarda la definizione dei partigiani quali ”patrioti e combattenti per la libertà”: il movimento partigiano era egemonizzato dal Pci, all’epoca diretta emanazione della Russia Sovietica da cui prendeva ordine tramite Togliatti, stretto collaboratore di Stalin (che infatti viveva in Russia). Obiettivo dichiarato di questi partigiani era quello di instaurare in Italia a guerra finita uno Stato comunista modellato ed assoggettato alla Russia sovietica, la cosiddetta “dittatura del proletariato”.
I partigiani rossi lottarono sì contro un regime, quello fascista, ma al solo scopo di sostituirlo con un'altro non certo migliore. Non si capisce quindi su quale base logica e storica i partigiani si possano definire “patrioti” e “combattenti per la libertà” se la maggior parte di essi voleva instaurare in Italia una dittatura spietata e per giunta sottomessa ad una potenza straniera.
Se l’Italia è ora una Repubblica "democratica" (sul concetto di democrazia – altro grande equivoco - torneremo) non è certo per merito dei partigiani, ma in virtù della divisione del mondo in due blocchi contrapposti decretata a Yalta nel ’45, da cui scaturì la nostra collocazione nel campo occidentale e la conseguente dipendenza americana.
Lo stesso discorso riguarda la Russia di Stalin la quale contribuì in maniera determinante alla sconfitta della Germania nazista, pagando per questo un pesante tributo di sangue, ma al solo scopo di estendere il suo dominio su tutto l’est europeo e non certo per portare in quelle sciagurate terre democrazia e libertà.
Non dimentichiamoci poi che l'Unione Sovietica fu alleata della Germania nazista fino al ’41 (patto Rippentrop-Molotov) con la quale si spartì la Polonia due anni prima.
Particolare importante che la storiografia ufficiale nasconde - perchè farebbe smontare in un sol colpo la tesi di comodo della "lotta della democrazia contro la tirannide" - riguarda la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra all’indomani dell’invasione tedesca della Polonia: fu dichiarata alla Germania, ma non alla Russia pur avendo anch’essa attaccato, da est, la Polonia. Perché? Evidentemente la Polonia fu solo un pretesto per muovere guerra alla Germania, mentre Stalin, che dopo la Polonia si apprestava ad invadere la Finlandia e ad annettersi le deboli Repubbliche Baltiche con l’assenso occidentale, era considerato già da allora un prezioso alleato, ben sapendo che questi era uno spietato dittatore, che con le sue "purghe" aveva massacrato, deportato nella gelida Siberia e ridotto alla fame milioni di russi, molti dei quali ebrei, definiti "nemici della rivoluzione" (ma questo, evidentemente, alle democrazie occidentali - America in testa - poco importava).
Il secondo dubbio riguarda la definizione di “guerra di Liberazione", quando invece fu una classica e tragica guerra civile. I fascisti non venivano da Marte, erano italiani come italiani erano i partigiani. In quei lunghissimi 18 mesi la guerra fratricida non risparmiò nessuno, attraversò le famiglie e divise i fratelli. Gli uomini persero la loro dimensione umana per accostarsi a quella animale.
Inoltre i tedeschi non invasero l’Italia, c’erano già: dopo la caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943, il governo Badoglio chiese aiuto dell’alleato tedesco per contrastare gli anglo americani che nel frattempo erano sbarcati in Sicilia. I soldati italiani e tedeschi si ritrovarono, quindi, a combattere spalla a spalla contro l’invasore americano fino all’8 settembre ’43, quando il Re e Badoglio, con estrema disinvoltura e lasciando allo sbando il nostro esercito, passarono armi e bagagli dalla parte del nemico, scatenando l’ira di Hitler che si apprestava a deportare in Germania tutti gli uomini abili al lavoro e a smantellare completamente il nostro apparato industriale per ridurci alla fame, poi frenato nei suoi propositi dalla nascita della Repubblica Sociale Italiana con la ricostituzione di un esercito lealista cui aderirono, secondo uno studio di Silvio Bertoldi (“Soldati a Salò” ed. Rizzoli, Milano 1995) e confermato dai libri matricola, in seicentomila (quanti fossero i partigiani è invece un mistero).
Il contributo dei partigiani alla sconfitta tedesca fu, inoltre, del tutto marginale se lo rapportiamo all’enorme potenziale bellico messo in campo dagli alleati. Le fila partigiane s’ingrossavano man mano che l’esercito tedesco si ritirava sotto l’incalzare degli angloamericani. Gli stessi americani avevano una scarsa considerazione dei partigiani e li tolleravano solo perché facevano per loro il lavoro sporco come assassinare i gerarchi fascisti e fare attentati dinamitardi per suscitare la rappresaglia tedesca che fu quasi sempre spietata e disumana (come accadde con le Fosse Ardeatine conseguenza della bomba partigiana di Via Rasella che fece strage di riservisti tedeschi e scempio di una donna italiana con suo il suo bambino).
Il 25 aprile del ‘45 Mussolini era a Milano e solo dopo la sua partenza per trovare la morte a Dongo il capoluogo lombardo fu “liberato” dai partigiani che si abbandonarono ad una vera e propria orgia di sangue contro i fascisti o presunti tali, compresi i loro familiari. Come ben documentato dai libri di Pansa, Ellena e Pisanò e come testimoniano le lapide al Campo 10 del Cimitero Maggiore di Milano che raccoglie le spoglie dei fascisti (quelle che si riuscì a recuperare, oltre un migliaio) molti dei quali barbaramente assassinati o fucilati dopo il 25 aprile.
Il terzo dubbio riguarda la modalità di lotta dei partigiani. Mentre i fascisti combattevano in divisa e a volto scoperto, inquadrati nelle divisioni dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana o nelle varie milizie volontarie i partigiani, invece, pur potendo anch’essi vestire una divisa - essendo armati e finanziati dagli americani - e pur potendo combattere a fianco dell’esercito alleato o nell'esercito italiano di Badoglio secondo le regole di guerra, preferirono il passamontagna, i soprannomi e la tecnica del mordi e fuggi a base di attentati, sabotaggi e omicidi alle spalle. Tecnica sicuramente meno rischiosa per loro, ma devastante negli effetti. Il fine era infatti quello di scatenare la rappresaglia tedesca e creare i presupposti per quella guerra civile, poi eufemisticamente definita di “liberazione”, le cui ferite ancora oggi stentano a rimarginarsi.
Sono dubbi su cui mi piacerebbe si sviluppasse un dibattito, sereno e senza reticenze, finalizzato a capire la storia e non solo a celebrarla come purtroppo avviene da sessant’anni.
Gianfredo Ruggiero, presidente del Circolo Culturale Excalibur - Varese
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