Romiti: "Il Corriere non lo volevo. E' stato Bazoli a fare tutto..."
"La Fiat entrò nella cordata senza indagare. Ci bastò la parola del Nuovo Banco Ambrosiano. Col senno di poi forse fu un errore. Solo leggendo il Giornale ho capito che cosa c'era dietro"
Nel settembre del 1981, Angelo Rizzoli, proprietario del Corriere della Sera, ricevette nel suo ufficio di Roma la visita inaspettata di un agente segreto appassionato di gastronomia, un uomo dall’evidente doppia identità, o forse afflitto da sdoppiamento della personalità considerato che firmava le recensioni dei ristoranti sull’Espresso con lo pseudonimo Gault & Millau: Federico Umberto D’Amato, già direttore dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, iscritto alla loggia P2. Il controverso personaggio gli disse: «Calvi la vuole vedere». Roberto Calvi era il presidente del Banco Ambrosiano e l’anno dopo sarebbe finito impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra. Il 29 aprile aveva acquistato da Rizzoli, che deteneva il 90,2% del pacchetto di controllo dell’omonima casa editrice, il 40% delle azioni, senza però pagare il dovuto: in tutto 150 miliardi di lire, comprensivi di un aumento di capitale che i due avevano concordato all’atto della compravendita.
Il padrone del Corriere fu condotto dallo 007 gourmet in una casa di via del Governo Vecchio, dove tale Francesco Pazienza, che in seguito sarebbe stato gratificato nelle cronache giudiziarie con l’appellativo di «faccendiere», conviveva con la sorella del produttore cinematografico Aurelio De Laurentiis. Lì in effetti trovò ad attenderlo Calvi, tornato libero da poche settimane dopo quasi tre mesi passati in galera per evasione valutaria. Il banchiere lo aggredì con la bava alla bocca: «Dove sono finiti i soldi della Rizzoli? Non vorrà farmi credere che lei non sa nulla del vino veronese!». Angelo junior, allora soprannominato Angelone per via della stazza, rimase interdetto. Si stava parlando dei soldi suoi, di Rizzoli, che Calvi avrebbe dovuto versargli almeno quattro mesi prima. In seguito tutto gli sarebbe stato tragicamente chiaro: attraverso complicate triangolazioni fra banche compiacenti e società di comodo con sedi in Liberia, Svizzera, Isole del Canale, Irlanda, Panama e Bahamas, ordite dallo stesso Calvi in combutta con i piduisti Licio Gelli, Umberto Ortolani e Bruno Tassan Din, il malloppo era stato dirottato su vari conti correnti, uno dei quali battezzato pittorescamente Recioto, come il famoso vino della Valpolicella. Poiché Calvi non si fidava neanche di se stesso, voleva solo sincerarsi che l’ignaro Rizzoli non si fosse accordato col famigerato trio Blu (Bruno, Licio, Umberto) per fregarglielo. Lo scippo del Corriere ruota attorno a questi 150 miliardi di lire. Quelli che Calvi doveva ad Angelo Rizzoli per il 40% delle azioni e per l’aumento di capitale. Quelli che i quattro massimi dirigenti del Banco Ambrosiano, Roberto Rosone, Gennaro Zanfagna, Filippo Leoni e Giacomo Botta, avevano visto finire su conti correnti esteri in paradisi fiscali anziché in via Solferino, ricevendo da Calvi l’ordine perentorio di non farne parola con Rizzoli. Quelli che al proprietario della Rizzoli, malato di sclerosi multipla, costarono 407 giorni di isolamento e detenzione in cinque diverse prigioni, la spoliazione del patrimonio di famiglia e sei processi conclusisi dopo 26 anni in Cassazione con altrettante assoluzioni definitive per insussistenza dei reati. Quelli che aprirono una falla nei conti del Corriere. Quelli che consentirono a Giovanni Bazoli, all’epoca presidente dell’Nba (Nuovo Banco Ambrosiano) sorto dalle ceneri del vecchio Ambrosiano, oggi Intesa Sanpaolo, di agitare lo spettro della bancarotta. Quelli che permisero a una cordata di salvataggio formata da Gemina (Fiat e Mediobanca), Iniziativa Meta (Montedison), Mittel (finanziaria bresciana facente capo allo stesso Bazoli) e Giovanni Arvedi (imprenditore siderurgico), di appropriarsi della seconda casa editrice d’Europa e del primo quotidiano d’Italia per un tozzo di pane. Quelli che nessuno dei potenziali acquirenti del
Corriere si prese la briga di capire in quale buco nero fossero stati inghiottiti. Neppure Cesare Romiti, dal suo osservatorio privilegiato prima di amministratore delegato (1976-1996) e di presidente della Fiat (1996-1998), poi di presidente della Rizzoli-Corriere della Sera (1998-2004), e ora di presidente d’onore della medesima Rcs Mediagroup, può dimostrare d’aver a suo tempo indagato sulla torbida vicenda. Ma lui, almeno, una giustificazione ce l’ha: «Fece tutto Bazoli. Fu lui a convincere Gianni Agnelli dell’ineluttabile dovere di partecipare all’operazione di salvataggio del Corriere. Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca, e io eravamo molto scettici. Ma Bazoli insisteva tanto. Alla fine cedemmo e, senza curarci minimamente dei dettagli, entrammo nella cordata. Solo leggendo la sua intervista ad Angelo Rizzoli (Il Giornale, 21 febbraio, ndr) ho compreso fino in fondo che cosa c’era dietro a questa vicenda».
Sembra sincero. Gli anni - ne compirà 87 il prossimo 24 giugno - hanno addolcito i lineamenti spigolosi del viso asimmetrico. La risolutezza, quella è intatta. Sulla scrivania, tre libri: Date a Cesare... Da boiardo di Stato a leader carismatico: la vita di Cesare Romiti di Paolo Madron, Le confessioni d’un italiano di Ippolito Nievo e un inaspettato Facce da schiaffi di Mario Melloni, alias Fortebraccio, il defunto corsivista dell’Unità. Alle pareti, tre foto (nella prima passeggia con Cuccia, nella seconda bisbiglia qualcosa all’orecchio dell’Avvocato, nella terza s’inchina al cospetto di Papa Wojtyla) e un cartello che veniva appeso nelle fabbriche francesi nel XIX secolo, un aforisma che parla il linguaggio universale dei leader e dunque non ha bisogno di traduzioni: «Du haut en bas de l’échelle sociale l’exemple est la plus belle forme de l’autorité».Il 17 luglio 1974 Agnelli cedette per 24 miliardi di lire ad Andrea Rizzoli, padre di Angelo, il 33% del Corriere e si prese da Eugenio Scalfari, sull’Espresso, l’epiteto di «avvocato di panna montata», in quanto sembrava che abdicasse a un suo dovere imprenditoriale e civico. Perché lo fece?
«Perché, presumo, Giulia Maria Crespi gli aveva comunicato l’intenzione di vendere il suo 33% e lo stesso aveva fatto Angelo Moratti che deteneva un altro 33%. Io arrivai in Fiat pochi mesi dopo, a operazione già avvenuta. Ma fui ben lieto che la vendita del Corriere si fosse conclusa. Dentro di me esclamai: Madonna, che bella notizia! La casa automobilistica non aveva nemmeno i quattrini per arrivare a fine anno. Quei 24 miliardi erano una manna dal cielo».
E perché dieci anni dopo la Fiat decise di compiere il percorso inverso e di ricomprarsi il Corriere?
«Il bandolo della matassa l’aveva in mano Bazoli. Un giorno c’informò che la quota di Angelo Rizzoli era in vendita e che sarebbe stato molto opportuno farla rilevare a imprenditori borghesi, indipendenti, liberali, com’era nella tradizione del Corriere. Agnelli me ne parlò, prospettandomi la possibilità di entrare come Gemina, la società costituita insieme con Mediobanca di cui Fiat era la principale azionista. Gli obiettai: ma scusi, avvocato, siamo già in un mare di guai, tutto ci conviene tranne che comprare dell’altra roba. Ma vedevo che non mi dava retta. Ne parlai subito con Cuccia. In fin dei conti ero finito a Torino su consiglio del patron di Mediobanca».
E Cuccia?
«Sgranò gli occhi: “Ma chi ve lo fa fare? Lasciate perdere! I giornali sono soltanto fonte di rogne”. Solo che Cuccia subiva il fascino di Agnelli, gli dispiaceva non accontentarlo. A sua volta Agnelli era pressato da Bazoli: l’ingresso della Fiat nell’affare avrebbe dato un tono all’intera operazione. Io cercavo di temporeggiare. Bisogna tener conto che l’Avvocato aveva due grandi passioni: i giornali e la diplomazia. A parte l’amore che riversava sulla Stampa, lei ricorderà che fu vicino a diventare ambasciatore dell’Italia a Washington quando nel 1976 il Pci raggiunse il massimo storico di voti. E frenarlo nelle sue passioni era impossibile».
Così lei si mise la cordata al collo.
«Oltre a Gemina, dovevano farne parte solo Arvedi e la Mittel di Bazoli. Non ho mai capito quali rapporti legassero quest’ultimo all’industriale di Cremona, che conobbi nella tenuta agricola di famiglia, curata con grande competenza dalla moglie. Un uomo molto perbene, Arvedi, la cui unica stravaganza, dal mio punto di vista, in quel momento era rappresentata dalla pretesa di far soldi con l’acciaio, settore che andava a rotoli. Invece all’ultimo minuto Bazoli ci comunicò che nella cordata doveva essere inserita anche la Montedison di Mario Schimberni. Io non avevo nulla contro Schimberni, lo conoscevo da una vita. Ma il metodo c’indispettì parecchio e l’accordo fu lì lì per saltare, con mio enorme sollievo».
Invece?
«Si scoprì che Schimberni era stato imposto a Bazoli da Bettino Craxi. Con i politici noi non parlammo, era Bazoli a tenere i rapporti. Ma si capiva che nel Palazzo consideravano la Fiat il perno indispensabile del salvataggio».
Mi faccia capire: tutti vi tiravano per la giacca, ripetendovi il ritornello «intervenite, altrimenti la Rizzoli fallirà», e lei non sentì il bisogno di consultare il proprietario per appurare come stessero effettivamente le cose?
«No. Avevamo la parola di Bazoli. La Rizzoli era in grembo al Nuovo Banco Ambrosiano da lui presieduto. Bazoli ci disse che la situazione finanziaria della Rizzoli era disastrosa. Non quella del Corriere, che andava bene: della casa editrice in generale. E a noi tanto bastò».
Non vi spiegò che mancavano all’appello i 150 miliardi usciti dal vecchio Ambrosiano? Avreste perlomeno dovuto chiedere conto di quell’ammanco ad Angelo Rizzoli, il quale vi avrebbe spiegato che se li erano rubati Calvi e soci.
«Ci fidammo dello scenario che ci era stato rappresentato. Col senno di poi forse fu un errore».
Ma quando Bazoli vi annunciò che della cordata doveva far parte anche la Mittel, non vi parve una condizione poco elegante, diciamo così?
«Il ruolo che ci era stato cucito addosso era quello di salvatori della patria. Avevamo un dovere da compiere, punto e basta. Del resto non c’importava niente. Per cui perfezionammo l’acquisto: a Gemina andò il 46,28%, a Montedison il 23,14%, ad Arvedi l’11,57%, a Mittel l’11,57%, ad altri il 7,44%».
Angelo Rizzoli accusa Bazoli d’aver svolto tre parti nella stessa commedia: venditore della casa editrice in quanto presidente dell’Nba che deteneva il 40% delle azioni acquistate epperò mai pagate dal vecchio Ambrosiano, acquirente in quanto azionista di Mittel, arbitro in quanto fu lui a segnalare ai commissari nominati dal tribunale la cordata interessata ad assumere il controllo della casa editrice.
«Non faccio commenti».
Persino Pier Domenico Gallo, uomo di fiducia del banchiere bresciano e direttore generale dell’Nba dall’82 all’87, riconosce in un libro che vi era «un classico problema di conflitto d’interessi». Bazoli lo aggirò affidando temporaneamente la presidenza della Mittel al costituzionalista Paolo Barile. Dopodiché tornò ai vertici di Mittel, di cui è tuttora presidente.
«Gliel’ho detto: non faccio commenti».
Mittel acquista l’11,57% della Rizzoli pagando 708 lire per azione. Di lì a poco ne rivende una parte a Gemina al prezzo di 2.274 lire cadauna; nel 1987 ne rivende un’altra parte al prezzo di 5.227 lire cadauna. In altre parole, a 15 mesi dal loro acquisto, le azioni Rizzoli in mano alla Mittel valevano più del triplo; dopo altri tre mesi, sette-otto volte la cifra iniziale. E questo sarebbe un salvataggio?
«Lei è un bravo giornalista, ma io non le rispondo».
Dieci anni dopo essere uscito dal Corriere con in tasca i 24 miliardi del suo 33%, Agnelli, attraverso Gemina e con l’aiuto di Montedison, Arvedi e Mittel, strappa al legittimo proprietario il 50,2% della Rizzoli. Tutti insieme pagano circa 9 miliardi di lire. L’affare del secolo, si direbbe.
«I fatti vanno contestualizzati. Era un periodo tremendo. La Fiat versava in profondo rosso a causa della seconda crisi petrolifera, non riuscivamo a vendere le auto, avevamo il terrorismo in fabbrica, uccisioni, azzoppamenti, io stesso rischiai d’essere rapito dalle Brigate rosse. Il prezzo d’acquisto fu rapportato alla perdita di bilancio della Rizzoli. L’unica preoccupazione dei salvatori della patria, metta pure salvatori della patria fra virgolette, era di trovare una persona che potesse rimettere a posto l’azienda».
E lei scelse il suo braccio destro Carlo Callieri, distaccato dalla Fiat a fare l’amministratore delegato della Rizzoli. In un recente dibattito alla televisione del gruppo Class editori, Callieri ha ribadito che il prezzo pagato fu giusto.
«Oggi l’azione manageriale di Callieri non la ricorda più nessuno. Ma il suo contributo fu determinante. Andò giù con la scimitarra, licenziò, tagliò. Dopo un anno, quando per motivi di famiglia volle lasciare Milano, la Rizzoli era risanata. Logico che il valore dell’azienda a quel punto risultasse superiore».
Eppure Gallo, ex direttore generale dell’Nba, nel corso della medesima trasmissione ha dichiarato: «Anche se io sono assolutamente convinto della totale correttezza della procedura di vendita, credo che la Rizzoli valesse di più».
«A me, sparagnino di natura, i 9 miliardi sembrarono un’enormità».
Il professor Luigi Guatri della Bocconi, che eseguì una perizia contabile per conto del tribunale di Milano, valutò il solo patrimonio attivo della Rizzoli 270 miliardi di lire. Quindi Gemina avrebbe dovuto sborsare per il 46,28% come minimo 125 miliardi.
«Io vidi solo i debiti che dovetti caricare sui conti della Fiat. Ebbi anche una lite bonaria con Cuccia, per questo. “Non dovevamo entrare”, continuava a ripetermi».
Carlo Scognamiglio Pasini, che voi soci nominaste presidente della casa editrice dopo l’ingiusto arresto di Rizzoli, mi ha detto che a suo avviso l’azienda poteva valere in quel momento «dai 385 ai 440 miliardi di lire». Quindi Gemina avrebbe dovuto sborsare dai 178 ai 204 miliardi.
«Ma per l’amor di Dio! Magari ci avessero chiesto quelle cifre. Mi sarei opposto fino all’ultimo sangue. Non l’avremmo comprata mai e poi mai! E così ci saremmo tolti il pensiero per sempre».
Di lì a quattro anni il valore della Rizzoli era decuplicato: 1.000 miliardi. Tant’è vero che il 10% venduto ai francesi di Hachette vi venne pagato 100 miliardi.
«Merito della gestione Callieri».
Rizzoli rammenta che fu costretto a subire lo scippo con un argomento assai convincente: «O accetti di vendere a queste condizioni oppure torni in galera e non esci più». Avendo già passato 13 mesi agli arresti, malato di sclerosi multipla, non ebbe scelta. Detto in altri termini: o la borsa o la vita.
«Io non mi occupai proprio di Rizzoli, manco lo conoscevo, ci hanno presentati anni dopo».
Ma Agnelli lo conosceva fin da quand’era bambino.
«Lo so. Ho visto che Angelo Rizzoli, nell’intervista che le ha rilasciato, ha attribuito all’Avvocato una frase molto cruda».
«Caro Angelo, si sa che nel mondo degli affari vige la legge della giungla: il più forte mangia il più debole. E tu eri il più debole». Una frase che Rizzoli si sarebbe aspettato da Totò Riina, non dal primo gentiluomo d’Italia.
«Non è da Agnelli. Non è nel suo stile, nella sua educazione. Io non lo riconosco».
Rizzoli mi ha anche raccontato che, quando ebbe a lamentarsi con lei per lo scippo del Corriere, si sentì rispondere: «Per tutte le cose che le sono accadute, deve rivolgersi a Bazoli».
«Non lo ricordo. Ma è molto probabile che gli abbia risposto così».
Bazoli non è la stessa persona che nel giugno 2004, quando Gemina era a corto di liquidità, fece dimettere l’amministratore delegato della società Maurizio Romiti, suo figlio, costringendovi a cedere il vostro 8,6% di Rcs Mediagroup?
«Mio figlio lasciò i conti in ordine. I guai arrivarono dopo. Fummo spinti a cedere un po’ da tutti gli altri azionisti».
Chi la pensionò?
«Il colloquio lo ebbi con Bazoli».
La facevo un gladiatore nato. Perché cedette?
«C’era di mezzo mio figlio. Non volevo che pensassero chissà che cosa...».
Ettore Livini su Repubblica scrisse: «Strappare il Corriere a Cesare Romiti è stato come tagliare i capelli a Sansone».
«Immagine un po’ troppo figurata. Però mi dispiacque parecchio, questo è sicuro».
Da presidente d’onore della Rcs partecipa ancora alle vicende della casa editrice?
«No, non vado più. Ma non ho nemmeno gioito quando, dopo la mia uscita, i conti sono peggiorati grazie all’ingaggio di un nuovo amministratore delegato, Vittorio Colao, manager bresciano di formazione McKinsey. Al contrario: ho sofferto».
Da quando Rizzoli fu espropriato del Corriere, il vero deus ex machina di via Solferino, passato indenne attraverso vicende politiche, economiche e giudiziarie, è Bazoli, incidentalmente anche presidente della più grande banca di questo Paese. Non le sembra una concentrazione di potere formidabile?
«Non le rispondo».
Rizzoli mi ha assicurato: «La Fiat e Cesare Romiti sapevano perfettamente che i 150 miliardi non erano stati versati dal Banco Ambrosiano alla Rizzoli».
«In cassa non c’erano. Nessuno sapeva dove fossero finiti».
No, i vertici dell’Ambrosiano lo sapevano benissimo, come poi testimoniarono al processo per il crac. Lei pensò che se li fosse fischiati Rizzoli?
«Non pensai nulla. Quello che era stato, era stato. A noi spettava il compito di rimboccarci le maniche e svuotare l’acqua prima che la barca affondasse. Non ho mai dubitato, se è questo che desidera sapere, della probità di Rizzoli. Ingenuo fin che si vuole. Ma onesto».
Intesa Sanpaolo, erede dell’Ambrosiano, non sarebbe tenuta a versare a Rizzoli quanto non gli corrispose 29 anni fa?
«Questo non può domandarlo a me. Deve domandarlo a loro».
Rizzoli, forte di sei assoluzioni definitive, ha trascinato in tribunale gli eredi della cordata che nel 1984 gli portò via il Corriere, chiedendo la restituzione di una cifra oscillante fra i 650 e i 750 milioni di euro.
«Ma la cifra è scritta nella citazione?».
«Una somma compresa tra euro 650.000.000 oppure euro 724.015.000 o la più alta che emergerà dall’istruttoria», così c’è scritto.
«Ai miei tempi non ero abituato a cifre tanto importanti».
Intervistato da Giovanni Minoli a Mixer, lei si attribuì una dote: «So essere molto, ma molto cattivo». Il fatto che Rizzoli, tuttora malato di sclerosi, in questa odissea abbia patito un’ingiusta detenzione di 13 mesi, la morte del padre per crepacuore mentre lui era in galera, la tragica fine della sorella Isabellina che si gettò dalla finestra per paura di finire in prigione, l’arresto senza motivo del fratello Alberto e il completo saccheggio del patrimonio di famiglia, che sentimenti suscita nell’ex uomo forte di Gemina?
«In confronto all’avvocato Agnelli ero molto più cattivo. Che sentimenti suscita... Compassione è una parola che non vorrei usare per Angelo Rizzoli. Del suicidio della sorella non sapevo nulla, l’ho appreso leggendo l’intervista sul Giornale. Che sentimenti suscita...». (Riflette).
Indignazione?
«No, che cosa si vuole indignare... Altro che da indignarsi ci sarebbe! No, direi... Impressione. E delusione. Nel nostro Paese capitano tante di queste cose, purtroppo, e provo delusione perché accadono».
Ci sarebbe da dimettersi da italiani.
«Ha ragione».
Secondo lei perché Indro Montanelli, pur essendo stimato da Agnelli, non riuscì mai a diventare direttore del Corriere, anzi fu licenziato da Piero Ottone e dovette fondare Il Giornale?
«Giulia Maria Crespi s’è sempre opposta. Sono stato molto amico di Indro. Non era solo un giornalista di eccezionale valore. Era anche una persona di grande umanità, che si compiaceva d’apparire duro e corrosivo con tutti, persino con i preti, ma in realtà non lo era affatto».
Lei ha rivelato: «Indro non morì ateo».
«È un mio personale convincimento. Frequentandolo in privato, si capiva bene quanto non fosse per nulla ateo. Un giorno gli chiesi: ma tu hai mai sentito parlare di monsignor Gianfranco Ravasi, il biblista prefetto della Biblioteca Ambrosiana? lo leggi? ti farebbe piacere incontrarlo? “Magari!”, rispose Indro, come se non aspettasse altro. Si conobbero a casa mia».
E lei, dottor Romiti, che cosa andò a cercare al Cottolengo di Torino? Suor Giuliana Galli nel 1999 mi raccontò di una sua visita.
«Una santa donna, molto attiva, molto colta. Da allora siamo rimasti in contatto. Adesso vive a Moncalieri e continua a fare del bene. Il Cottolengo era un luogo dove non sarei mai andato. E suor Giuliana, senza dir nulla, mi ci portò tenendomi per mano. Voleva dimostrarmi che nel Cottolengo non c’è disperazione, c’è solo serenità. Ho dovuto darle ragione. A un certo punto mi strinse la mano più forte: “Senta, dottor Romiti, manca l’ultimo quarto della casa. Non è facile. Vuole che torniamo indietro?”. No, andiamo avanti, le risposi. In una stanzetta c’erano dei bambini che giocavano, gattonando sulla moquette. Mi venne spontaneo sollevare da terra una bimbetta bionda, curva sul pavimento, di cui vedevo solo i capelli da dietro. Quando l’ebbi fra le braccia, si girò. Non è che fosse cieca: non aveva gli occhi. Eppure era molto carina. Per due anni ho chiesto di lei. Finché un giorno suor Giuliana mi ha avvisato che era morta. Sarà questa la provvidenza di Dio?».
Perché durante i funerali di Agnelli rimase in piedi nei banchi dall’inizio alla fine, omelia compresa?
«Mi erano tornate in mente le parole che l’Avvocato m’aveva detto a Villar Perosa, durante una messa celebrata non ricordo più in quale occasione: “Vede, io sono cattolico, sono stato battezzato in questa parrocchiale, credo nella Chiesa, ma non sono praticante. E allora, per rispetto e per farmi perdonare, rimango sempre in piedi durante le funzioni liturgiche”. I fedeli che sedevano dietro di me erano stizziti, volevano vedere il celebrante e le autorità. Ma io ero lì per Agnelli».
Le manca?
«Abbiamo vissuto insieme per un quarto di secolo, parlando tutti i giorni. Non solo di lavoro. Discutevamo di politica, di famiglia, di persone, di comportamenti umani. La sua principale curiosità era capire che cosa pensava veramente l’interlocutore che aveva dinanzi. Per me sono stati 25 anni molti corti, sono passati troppo in fretta».
E Cuccia le manca?
«Molto. Mi manca come può mancarti un padre o un fratello maggiore».
Del suo periodo in Fiat, lei rivelò: «Abbiamo pescato un paio di persone che prendevano denaro per presentare qualcuno all’Avvocato. Uno dei due l’abbiamo mandato in galera, l’altro alla Cinzano».
«Non solo per presentare qualcuno all’Avvocato: anche per presentare qualcuno a me. Vede il mondo? È incredibile...».
L’altro, quello finito alla Cinzano, ammise: «È vero, ho sbagliato, per favorire il contatto con Gianni Agnelli mi sono fatto dare 80 milioni nel cofanetto vuoto di un libro di Enzo Biagi». Si tratta di Luca Cordero di Montezemolo, attuale presidente della Fiat.
«Non faccio commenti».
Trent’anni fa lei licenziò in un solo giorno 14.469 operai della Fiat. Come si dorme dopo una decisione del genere?
«Si dorme male, male, male. In chi ha il senso della coscienza, e io spero d’averlo, penso d’averlo, i minuti più terribili sono quelli che passano dal momento in cui, stanco, ti metti a letto e appoggi la testa sul cuscino e il momento in cui ti addormenti. Sono i minuti più lunghi della tua vita. Sei solo con te stesso e rivedi tutto ciò che hai fatto. Quella notte per me furono ore, non minuti».
S’è risentito quando Aldo Cazzullo del Corriere le ha citato una stima secondo cui la Fiat avrebbe ricevuto fino a oggi dallo Stato aiuti per 250.000 miliardi di lire: «Magari avessimo potuto disporre di queste cifre!».
«Confermo. Ci metta dentro tutto ciò che vuole: cassa integrazione, rottamazioni, incentivi, sgravi fiscali... Nooo! Un conto assurdo, sbagliato».
La mia domanda era un’altra: il principio fondante del capitalismo non è che un’azienda deve stare in piedi sulle proprie gambe o altrimenti deve chiudere?
«Guardi che gli incentivi si danno da sempre anche nei Paesi del capitalismo avanzato, come gli Stati Uniti. Quando non sono finalizzati a coprire gestioni improvvide o ruberie, non ci vedo nulla di male. Se vanno a favore della collettività, ben vengano».
Sì, però bisognerebbe che le aziende li restituissero allo Stato nel momento in cui esse tornano a macinare utili.
«E quando un’azienda paga le tasse, che fa?».
Le tasse le pagano anche le aziende che non godono di incentivi statali.
«Le aziende non sono dei proprietari».
È confortante sentirglielo dire.
«Sono delle persone che ci lavorano dentro, delle famiglie, dei fornitori, dei clienti. Se un’azienda è sana ma si trova in una difficoltà temporanea di mercato, perché non aiutarla?».
Lei è presidente della Fondazione Italia-Cina, che ha costituito nel 2003. A parte la concorrenza sleale, il parmigiano contraffatto, il latte alla melamina, le condanne a morte sommarie, l’aborto selettivo delle bambine, la repressione in Tibet, l’inquinamento, che può venirci di buono dalla Cina?
«Tutto. Il futuro sta da quella parte. Continuiamo a stimare gli Usa anche se hanno fatto Guantanamo, giusto?».
A proposito d’inquinamento. Alfonso Pecoraro Scanio, ministro dell’Ambiente nel governo Prodi, incolpò dell’emergenza rifiuti in Campania, la Fibe del gruppo Impregilo, società di costruzioni da lei presieduta fino al 2006, che produsse 5 milioni di tonnellate di ecoballe.
«Avrei dovuto dare querela. Ma non ne valeva la pena. Che fine avrà fatto Pecoraro Scanio?».
Bisognerebbe chiederlo a Gustavo Adolfo Rol, famoso sensitivo torinese, se non fosse morto da 15 anni.
«Tipo straordinario, Rol. Mi fece mettere nella tasca della giacca un foglio bianco. Quando lo estrassi, era pieno di buoni consigli scritti a mano da Vittorio Valletta (direttore generale della Fiat dal 1921 e presidente dal 1946, ndr). Conoscevo bene la calligrafia di Valletta: la lettera era proprio sua».
Le mancano i giornali?
«D’abitudine leggo solo il Corriere e La Gazzetta dello Sport perché mi arrivano le copie omaggio. Compro La Repubblica. I settimanali non li apro nemmeno».
Allora non avrà letto quanto scrisse Lo Specchio della Stampa: «Tra i manager che si rivolgono agli astronomi per saper dove investire ci sarebbero Cesare Romiti e alcuni membri della Consob».
«Anche La Stampa qualche volta sbaglia. Gran giornale La Stampa!».
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