Il potere governativo delle banche
L’insolenza degli speculatori suscita una vivace opposizione popolare e costringe i governi a prendere una certa distanza dalla finanza. Il 20 maggio il presidente Barak Obama ha definito «un’orda di lobbisti» i banchieri che si opponevano al suo progetto di regolamentazione di Wall Street. Coloro che firmano gli assegni continueranno a scrivere le leggi?
Di Serge Halimi (direttore di Le Monde Diplomatique) (traduzione dal francese di José F. Padova)
Il 10 maggio 2010, rassicurati da una nuova iniezione di 750 miliardi di euro nella fornace della speculazione, i detentori di titoli della Société Générale hanno guadagnato il 28,89%. In quello stesso giorno il presidente francese Nicolas Sarkozy annunciò che, per mantenere il rigore di bilancio, l’aiuto eccezionale di 150 euro alle famiglie in difficoltà non sarebbe stato riconfermato. Così, crisi finanziaria dopo crisi finanziaria, si diffonde la convinzione che il potere politico allinei la sua condotta sulla volontà degli investitori in azioni. Periodicamente, démocratie oblige, gli eletti convocano la popolazione perché privilegi i partiti che i «mercati» hanno preselezionato sulla base della loro innocuità.
Il sospetto di prevaricazione erode a poco a poco il credito accumulato con l’invocazione del bene comune. Quando Barak Obama fustiga la banca Goldman Sachs per meglio giustificare le sue misure di regolamentazione finanziaria i repubblicani diffondono, mentre si tiene la seduta al Congresso, uno spot (1) che ricapitola l’elenco delle donazioni che il presidente e i suoi amici politici hanno ricevuto da «La Firme» [ndt.: «La Casa», ironico appellativo di Goldman Sachs, forse richiamando il titolo francese del film di Pollack “Il Socio”] in occasione delle elezioni del 2008: «Democratici: 4,5 milioni di dollari. Repubblicani: 1,5 milioni di dollari. Certi politici se la prendono con la finanza [lett.: l’industria finanziaria!], ma accettano i milioni che Wall Street versa loro». Quando, adducendo a pretesto il voler salvaguardare i bilanci delle famiglie povere, i conservatori britannici si oppongono all’istituzione di un prezzo minimo degli alcolici, i laburisti replicano che si tratta piuttosto di fare un favore ai proprietari dei supermercati, ostili a un simile provvedimento dal momento in cui hanno fatto del prezzo degli alcolici un richiamo per gli adolescenti, felicissimi che la birra possa costare meno dell’acqua. Infine, quando Sarkozy vieta la pubblicità sulle reti televisive pubbliche, tutti fiutano il profitto che le televisioni private guidate dai suoi amici Vincent Bolloré, Martin Bouygues [ndt.: magnati TV], ecc. trarranno da una situazione che li libera da ogni concorrenza nella spartizione del bottino degli inserzionisti.
Questo genere di sospetti risale lontano nella storia. Infatti, molte realtà che dovrebbero scandalizzare ma alle quali ci si rassegna vengono minimizzate con un «Ma è sempre stato così!». Nel 1887, certo, il genero del presidente francese Jules Grévy approfittava della sua parentela con l’Eliseo [ndt.: il palazzo della Presidenza] per fare commercio delle decorazioni [ndt.: Légion d’Honneur, ecc.]; all’inizio del secolo scorso, la Standard Oil dettava le sue volontà a numerosi governatori degli Stati Uniti. Infine, sull’argomento dittatura della finanza, si ricordava dal 1924 in poi il «plebiscito quotidiano dei titolari di Buoni [del Tesoro]» - i creditori del debito pubblico dell’epoca – l’altro appellativo dei quali era il «muro del denaro». Tuttavia, nel corso del tempo, alcune leggi avevano regolamentato il ruolo del capitale nella vita politica. Perfino negli Stati Uniti: nel corso dell’ «era progressista» (1880-1920) e poi alla fine dello scandalo del Watergate (1974), sempre in seguito a mobilitazioni politiche. Quanto al «muro di denaro», in Francia la finanza fu messa sotto tutela all’indomani della Liberazione [dal giogo tedesco]. Insomma, tutto questo era «sempre esistito», ma poteva anche cambiare.
E poi cambiare ancora… ma in senso opposto. Dal 30 gennaio 1976 la Corte Suprema degli Stati Uniti invalidava numerose disposizioni-chiave, votate dal Congresso (sentenza Buckley contro Valeo), che limitano il ruolo del denaro in politica. Motivo invocato dai giudici? La libertà d’espressione «non dipenderebbe dalla capacità finanziaria dell’individuo a impegnarsi nel dibattito pubblico». Una formulazione molto lambiccata per significare che regolamentare la spesa equivale a soffocare l’espressione… Nel gennaio scorso questa sentenza è stata ampliata al punto di autorizzare le imprese a spendere quanto vogliono per promuovere (o combattere) un candidato. Altrove, da una ventina d’anni, fra i vecchi apparatchiki sovietici totalmente trasformati in oligarchi industriali, i dirigenti cinesi che occupano un posto privilegiati in seno al Partito Comunista, i capi di governo,i ministri e i deputati europei che preparano, all’americana, la loro riconversione nel «settore privato», una gerarchia clericale iraniana e i militari pakistani inebriati dagli affari (2), lo scivolamento venale è diventato sistema e perverte la vita politica del pianeta.
Nella primavera del 1996, al termine di un primo mandato molto mediocre, il presidente William Clinton preparava la sua campagna per la rielezione. Aveva bisogno di denaro. Per procurarsene ebbe l’idea di offrire ai donatori del suo partito più generosi di passare una notte alla Casa Bianca, per esempio nella «camera di Lincoln». Poiché trovarsi là dove dormiva il «grande emancipatore» non è alla portata dei borsellini meno gonfi e neppure è il fantasma obbligato di quelli più pieni, altre piacevolezze erano state messe all’incanto. Fra le quali quella di «prendere un caffè» alla Casa Bianca con il presidente degli Stati Uniti. I potenziali finanziatori del Partito democratico incontrarono quindi a infornate intere i membri dell’esecutivo incaricati di ordinare la loro attività. Il portavoce del presidente Clinton, Lanny Davis, spiegò ingenuamente che si trattava di «permettere ai membri delle Agenzie di regolamentazione di conoscere meglio i problemi dell’industria in esame (3). Uno di questi «caffè di lavoro» potrebbe essere costato qualche migliaio di miliardi di dollari all’economia mondiale, favorendo il decollo del debito degli Stati, e aver provocato la perdita di decine di milioni di posti di lavoro.
Nel 1996 Clinton invitò i banchieri a prendere il caffè alla Casa Bianca
Il 13 maggio 1996 alcuni dei principali banchieri degli Stati Uniti furono ricevuti per 90 minuti alla Casa Bianca dai principali membri dell’Amministrazione. A fianco del presidente Clinton il ministro delle Finanze, Robert Rubin, il suo vice incaricato delle questioni monetarie John Hawke e il responsabile della regolamentazione delle banche, Eugene Ludwig. Per un caso certamente provvidenziale partecipava alla riunione anche il tesoriere del partito democratico, Marvin Rosen. Secondo il portavoce di Ludwig «i banchieri discussero della legislazione futura, comprese idee che permetterebbero di infrangere la barriera che separa le banche dalle altre istituzioni finanziarie».
Istruito dal crack delle borse nel 1929, il New Deal aveva vietato alle banche di depositi di arrischiare sconsideratamente il denaro dei loro clienti, con la conseguenza di obbligare lo Stato a rimetterle a galla per paura che il loro eventuale fallimento provocasse la rovina dei loro numerosi depositanti. Firmata dal presidente Franklin Roosevelt nel 1933, la normativa, ancora in vigore nel 1996 (legge Glass-Steagall), urtava fortemente i banchieri, preoccupati di approfittare anch’essi dei miracoli della «nuova economia». Il «caffè di lavoro» mirava a ricordare questo disappunto al capo dell’esecutivo americano, nel momento in cui si dava da fare per ottenere che le banche finanziassero la sua rielezione.
Qualche settimana dopo l’incontro dispacci d’agenzia annunciarono che il ministro delle Finanze avrebbe inviato al Congresso un complesso legislativo «che rimetteva in discussione le regole bancarie stabilite sei decenni prima permettendo quindi alle banche [ndt.: di deposito o risparmio] di lanciarsi ampiamente nel campo assicurativo e in quello delle banche d’affari e di mercato». Il seguito tutti lo conoscono. L’abolizione della legge Glass-Steagall fu firmata nel 1999 da un presidente Clinton rieletto tre anni prima in parte grazie al suo tesoro di guerra elettorale (4). Essa infiammò l’orgia speculativa degli anni 2000 (sofisticazione sempre più spinta dei prodotti finanziari, del tipo dei crediti ipotecari subprime, ecc.) e accelerò il crack economico del settembre 2008.
Per la verità il «caffè di lavoro» del 1996 (ve ne furono 103 dello stesso genere nello stesso periodo e nello stesso luogo) non fece altro che confermare le pressioni che già agivano a favore degli interessi della finanza. Perché fu un Congresso a maggioranza repubblicana che seppellì la legge Glass-Steagall, in conformità alla sua ideologia liberale e ai desideri dei suoi «mecenati» - poiché i parlamentari repubblicani erano anch’essi innaffiati di dollari da parte delle banche. Quanto all’Amministrazione Clinton, con o senza «caffè di lavoro», non avrebbe resistito a lungo ai desideri di Wall Street se il suo ministro delle Finanze, Rubin, non avesse precedentemente diretto Goldman Sachs. Proprio come d’altra parte Henry Paulson, al timone del Tesoro americano durante il crack del settembre 2008. Dopo aver lasciato morire Bear Sterns e Merryl Lynch – due concorrenti di Goldman Sachs – Paulson rimise a galla American International Group (AIG), una compagnia di assicurazioni il cui fallimento avrebbe colpito il suo più grande creditore… Goldman Sachs.
Perché una popolazione che non è composta in maggioranza di ricchi accetta che i suoi eletti soddisfino prioritariamente le richieste degli industriali, degli avvocati d’affari, dei banchieri, fino al punto che la politica arrivi a consolidare i rapporti di forza economici invece di opporre loro la legittimità democratica? Perché, quando sono essi stessi eletti, questi ricchi si sentono autorizzati ad allargare il loro patrimonio? E a proclamare che l’interesse generale impone di soddisfare gli interessi particolari delle classi privilegiate, le sole dotate del potere di fare (investimenti) o di impedire (dislocazioni) e che occorre costantemente sedurre («rassicurare i mercati») o trattenere (logica dello «scudo fiscale» [ndt.: si riferisce alla “curva di Laffer”, secondo il quale “troppe imposte uccidono le imposte”])?
Queste domande portano a ricordare il caso dell’Italia [ndt.: vedi l’articolo di F. Lancini sulla delusione dei giudici italiani, già inviato]. In questo paese uno degli uomini più ricchi del pianeta non è entrato in un partito con la speranza d’influenzarlo, ma ne ha creato uno proprio, Forza Italia, per difendere i propri interessi affaristici. La Repubblica d’altronde ha pubblicato l’elenco delle diciotto leggi che hanno favorito l’impero commerciale di Silvio Berlusconi dal 1994 in poi, o che gli hanno permesso di sfuggire alle indagini giudiziarie mosse contro di lui. Da parte sua il ministro della Giustizia del Costa Rica, Francisco Dall’Anase, mette già in guardia contro sviluppi ulteriori. Quelli che vedranno in certi Paesi lo Stato mettersi al servizio non più soltanto delle banche, ma anche di gruppi criminali: «I cartelli della droga stanno impadronendosi dei partiti politici, finanziando campagne elettorali e alla fine prendendo il controllo dei governi (5)».
Al dunque, quale impatto la (nuova) rivelazione de La Repubblica ha avuto sul destino elettorale della destra italiana? Giudicando dal suo successo alle elezioni regionali del marzo scorso, nessuno. Tutto avviene come se lo scadimento quotidiano della morale pubblica avesse «mitridatizzato» popolazioni ormai rassegnate alla corruzione della vita politica. Perché allora indignarsi quando gli eletti badano costantemente a soddisfare i nuovi oligarchi – o a raggiungerli in vetta alla piramide dei redditi? «I poveri non fanno donazioni politiche», osservava molto giustamente l’ex candidato repubblicano alla presidenza John McCain. Da quando non è più senatore è diventato lobbista dell’industria finanziaria.
Attraverso i fondi-pensione molte persone normali hanno senza volerlo incatenato il loro destino a quello della finanza
Durante il mese che seguì la sua partenza dalla Casa Bianca Clinton guadagnò altrettanto denaro di quanto aveva guadagnato nel corso dei suoi precedenti cinquantatre anni. Goldman Sachs gli retribuì quattro discorsi con 650.000 dollari. Un altro discorso, pronunciato in Francia, gli fruttò 250.000 dollari; questa volta fu Citigroup che pagò. Per l’ultimo anno del mandato di Clinton, la coppia aveva dichiarato 375.000 dollari di reddito; fra il 2001 e il 2007 totalizzò 109 milioni di dollari. D’ora in poi la celebrità e i contatti acquisiti nel corso di una carriera politica si convertono in denaro soprattutto dopo che la carriera si è conclusa. Posti come amministratore nel settore privato o consulente di banche sostituiscono vantaggiosamente un mandato politico popolare del quale è scaduto il termine. Ora, governare è prevedere…
Ma la «riconversione» non si spiega soltanto con l’esigenza di restare a vita membro dell’oligarchia. L’impresa privata, gli istituti finanziari internazionali e le organizzazioni non governative collegate alle multinazionali sono diventati, talvolta ancor più dello Stato, luoghi di potere e di egemonia intellettuale. In Francia, tanto il prestigio della finanza quanto il desiderio di costruirsi un avvenire dorato hanno così distolto molti ex allievi della Scuola Nazionale d’Amministrazione (ENA), della Scuola normale superiore o del Politecnico dalla loro vocazione di servitori del bene pubblico. L’ex allievo dell’Ena e della Normale ed ex primo ministro Alain Juppé ha confessato di aver provato una tentazione simile: «Siamo stati tutti affascinati, compresi i media. I “golden boys”, erano formidabili! Questi giovanotti che arrivavano a Londra e che se ne stavano là davanti alle loro macchine e trasferivano miliardi di dollari in pochi istanti, che guadagnavano centinaia di milioni di euro tutti i mesi, tutti erano affascinati! (…) Non sarei del tutto sincero se negassi che io stesso mi dicevo, ogni tanto: Guarda un po’, se l’avessi fatto forse oggi mi troverei in una situazione diversa (6)».
«Nessun patema d’animo», al contrario, per Yves Galland, già ministro francese del Commercio, diventato presidente e direttore generale di Boeing France, un’impresa concorrente di Airbus. E nessuno scrupolo nemmeno per la signora Clara Gaymard, moglie di Hervé Gaymard, ex ministro dell’Economia, delle Finanze e dell’Industria: dopo essere stato funzionario a Bercy, poi ambasciatrice itinerante delegata agli Investimenti internazionali, è diventata presidente di General Electric France. Coscienza tranquilla anche per Christine Albanel, la quale per tre anni occupò il ministero della Culture e delle Comunicazioni. Dall’aprile 2010 dirige sempre le comunicazioni… però quelle di France Telecom.
La metà degli ex senatori americani diventano lobbisti, spesso al servizio delle imprese che avevano regolamentato. Così è stato anche per 283 ex membri dell’Amministrazione Clinton e 310 dell’Amministrazione Bush. Negli Stati Uniti il fatturato annuo del lobbismo si avvicina agli 8 miliardi di dollari. Importo enorme, ma rendimenti eccezionali! Nel 2003, per esempio, il tasso d’imposta sui redditi realizzati all’estero da Citigroup, JP Morgan Chase, Morgan Stanley e Merrill Lynch è stato portato dal 35% al 5,25%. Fattura del lobbying: 8,5 milioni di dollari. Vantaggio fiscale: 2 miliardi di dollari. Denominazione del provvedimento in questione: «Legge per la creazione di posti di lavoro americani (7)»…
«Nelle società moderne, riassume Alain Minc, ex allievo dell’ENA, consigliere (volontario) di Sarkozy e (stipendiato) di numerosi grandi imprenditori francesi, l’interesse generale può essere soddisfatto altrove che non nello Stato, può esserlo nelle imprese (8)». L’interesse generale, è tutto qui.
Questa attrazione per le «imprese» (e le loro retribuzioni) non ha mancato di operare la sua devastazione anche a sinistra. «Si è rinnovata un’alta borghesia, spiegava nel 2006 François Hollande, allora primo segretario del Partito socialista francese, nel momento in cui la sinistra giungeva alle responsabilità [di governo], nel 1981. (…) L’apparato dello Stato ha fornito al capitalismo i suoi nuovi dirigenti. (…) Venuti da una cultura del sevizio pubblico, hanno conseguito lo status di nuovi ricchi, parlando autorevolmente ai politici che li avevano nominati (9)». E che furono tentati di seguirli.
Il male sembra loro essere meno grave perché, per mezzo dei fondi di pensionamento o d’investimento, una parte crescente della popolazione ha legato, talvolta senza volerlo, il suo destino a quello della finanza. Ormai si può quindi difendere le banche e la Borsa ostentando di preoccuparsi della vedova senza mezzi, dell’impiegato che ha acquistato azioni per integrare il suo salario o garantire la sua pensione. Nel 2004 l’ex presidente George W. Bush ha concentrato la sua campagna per la rielezione su questa «classe d’investitori». Il Wall Street Journal spiegava: «Più gli elettori diventano azionisti, più essi sostengono le politiche economiche liberali legate ai repubblicani. (…) Il 58% degli americani hanno investimenti diretti o indiretti nei mercati finanziari, contro il 44% di sei anni prima. Ora, a tutti i livelli di reddito, gli investitori diretti sono più suscettibili di dichiararsi repubblicani di quanto lo sia chi non investe (10)». Si comprende come Bush abbia sognato di privatizzare le pensioni.
«Asserviti alla finanza da due decenni, i governi non si rivolteranno di loro iniziativa contro questa se non nel caso che la finanza stessa li aggredisca direttamente a un punto che sembri loro intollerabile», dichiarava il mese scorso l’economista Frédéric Lordon (11). La portata delle misure che Germania, Francia, Stati Uniti, G20 prenderanno contro la speculazione durante le prossime settimane ci dirà se l’umiliazione quotidiana che «i mercati» infliggono agli Stati e la collera popolare infiammata dal cinismo delle banche avranno risvegliato nei nostri governanti, stanchi di essere considerati come altrettanti domestici, il poco di dignità che resta loro.
Serge Halimi
Note:
(1) Video visibile all'indirizzo www.monde-diplomatique.fr/19172
(2) Leggere « L'argent », « L'empire économique des pasdarans » e « Mainmise des militaires sur les richesses du Pakistan », Le Monde diplomatique, rispettivamente in gennaio 2009, febbraio 2010 e gennaio 2008.
(3) Questa citazione e le due seguenti provengono da « Guess Who's Coming for Coffee ? », The Washington Post, National Weekly Edition, 3 febbraio 1997.
(4) Leggere Thomas Ferguson, « Le trésor de guerre du président Clinton », Le Monde diplomatique, agosto 1996.
(5) Citato da London Review of Books, Londra, 25 febbraio 2010.
(6) « Parlons Net », France Info, 27 marzo 2009.
(7) Dan Eggen, « Lobbying pays », The Washington Post, 12 aprile 2009.
(8) France Inter, 14 aprile 2010.
(9) François Hollande, Devoirs de vérité, Stock, Parigi, 2006, p. 159-161.
(10) Claudia Deane e Dan Balz, « "Investor Class" Gains Political Clout », The Wall Street Journal Europe, 28 ottobre 2003.
(11) La pompe à phynance, http://blog.mondediplo.net, 7 maggio 2010.
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