da Rebelion.org
Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
Petrolio e povertà nel Delta del Niger
Una storia di resistenza
di Aloia Álvarez Feáns
19/01/10
Il Delta del fiume Niger, da cui viene estratto quasi tutto il petrolio nigeriano, è sprofondato nella miseria socio-economica, nel degrado ambientale e nella violenza strutturale che comporta questo scenario. Il progressivo abbandono che ha subito la regione da parte del governo centrale nel senso della redistribuzione dei proventi del petrolio, come il comportamento delle compagnie private che operano nella zona dopo la nascita del settore degli idrocarburi in Nigeria hanno incontrato una risposta nelle comunità locali. Queste comunità si sono andate organizzando in movimenti sociali di vario genere per fare fronte all’impatto delle attività estrattive e reclamare dal governo e dalle imprese transnazionali un trattamento equo.
Il Delta del Niger copre oltre 75.000 kmq nella zona sud della Nigeria e comprende 9 dei 36 Stati della federazione. Secondo l’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo), in questo groviglio di laghi e meandri sopravvivono a stento all’incirca 30 milioni di persone organizzate in gruppi ristretti, la maggior parte delle volte di non più di 5.000 individui [1]. La ricchezza di risorse naturali della zona è la più grande del paese. Qui, la foresta pluviale disegna un paesaggio di terreni agricoli, foreste e acqua, con un grande valore di biodiversità. Una biodiversità minacciata fin dall’inizio dello sfruttamento petrolifero nel 1960, appena acquisita l’indipendenza dall’impero britannico.
Il petrolio estratto dalla regione rappresenta circa il 50% del PIL della Nigeria, fornisce il 95% dei guadagni in valuta del paese e l’80% delle entrate di bilancio, il che significa circa 20.000 milioni di dollari l’anno [2]. Inoltre, lo sviluppo del sottosettore del gas è inarrestabile, rendendo il paese un punto di attrazione internazionale fra i produttori di questa risorsa. Tuttavia, nonostante gli enormi profitti derivanti dalle esportazioni di petrolio e gas naturale, il 75% della popolazione del Delta vive ormai sotto la soglia di povertà. La sicurezza umana “contro minacce croniche come fame, malattie e repressione” e “contro i cambiamenti improvvisi e dolorosi della vita quotidiana, sia familiare, che lavorativa o della comunità” [3], è sottoposta a grave minaccia.
La distruzione dei settori produttivi tradizionali (pesca e agricoltura) e gli impatti sull’ambiente derivanti dall’estrazione di idrocarburi, mettono seriamente a repentaglio la sicurezza alimentare delle comunità del Delta. Il tasso di disoccupazione nella regione è molto più alto rispetto alla media nazionale e, paradossalmente, la situazione è peggiore nei tre principali Stati produttori di petrolio. Se nel 2000 in tutto il territorio nigeriano il tasso di disoccupazione raggiungeva il 4,7%, in Stati come quello di Rivers toccava un picco di oltre il 19% [4], per arrivare al 30% a Port Harcourt, la principale città della regione [5]. Inoltre, una grande percentuale di personale dell’industria petrolifera è espatriata o proviene da altre zone della Nigeria, il che aumenta il disagio della popolazione locale. Il fatto che l’industria degli idrocarburi sia, inoltre, un settore non integrato nell’economia, distrugge ogni possibile garanzia di accesso alle fonti di reddito. Nella regione che ha fatto della Nigeria una delle principali potenze economiche africane, solo il 27% della popolazione ha accesso all’acqua potabile e solo il 30% delle famiglie ha fornitura di energia elettrica [6]. Qual è l’origine di questo paradosso?
La spartizione della torta
Nel sistema nigeriano la redistribuzione delle rendite petrolifere è essenzialmente verticale, il che incide direttamente sul controllo delle risorse da parte delle comunità che si trovano nelle zone di produzione. La costituzione federale prevede che “la piena proprietà e il controllo dei minerali, oli minerali e gas naturale, sopra o sotto il terreno della Nigeria oppure sopra o sotto le acque territoriali e la Zona economica esclusiva della Nigeria, devono essere nelle mani del governo della Federazione” [7]. Sin dal 1970, il governo, attraverso la Nigerian National Petroleum Corporation (NNPC), controlla tutto il greggio nigeriano grazie alle partecipazioni sotto forma di joint ventures con società straniere. Cinque imprese transnazionali dominano il settore: la anglo-olandese Shell, le statunitensi ExxonMobil e ChevronTexaco, l’italiana Agip e la francese Total: tutte insieme possiedono il 98% delle riserve e degli utili, con circa 50 aziende più piccole a chiudere il cerchio.
Tutte le multinazionali che operano in Nigeria seguono le regole dello Stato e si sono convertite in sotto-entità della NNPC. La maggior parte di loro hanno firmato i “Principi volontari sulla sicurezza e i diritti umani nel settore estrattivo” [8]. Nel 2003 hanno anche aderito alle “Norme sulle responsabilità delle compagnie transnazionali ed altre imprese riguardo ai diritti umani” delle Nazioni Unite” [9]. Tuttavia, oltre al provato impatto sull’ambiente, la maggior parte di queste imprese sono direttamente coinvolte nella violazione dei diritti umani nel Delta, come dimostrato dalle molteplici azioni promosse dalla società civile per fare fronte agli abusi.
La società civile si leva in piedi
L’origine della contestazione sociale nel Delta risale agli anni delle prime esplorazioni europee nel XV secolo, per cui dovremmo considerare la storia del Delta anche come una storia di resistenza. Dalla scoperta del petrolio, questo dinamismo sociale è stato alimentato dalla frustrazione accumulata dalla popolazione locale. Dopo l’indipendenza dall’impero britannico nel 1960, il petrolio ha determinato l’evolversi di un ampio segmento di questa società.
La rivolta nel Delta guidata da Isaac Boro a capo dell’NDVF (Niger Delta Volunteers Force) può essere considerata come la prima grande ribellione della Nigeria postcoloniale. Il 23 febbraio 1966, Boro dichiarò la Repubblica dei Popoli del Delta del Niger e annullò simbolicamente tutti i contratti petroliferi, invitando le compagnie a negoziare direttamente con la sua amministrazione. Dodici giorni dopo, Boro fu arrestato, torturato, condannato a morte insieme ad alcuni dei suoi uomini, poi graziato e infine assassinato, secondo alcune fonti, per mano dello stesso governo federale.
Poco dopo, la guerra del Biafra (1966-1969), in cui le risorse petrolifere giocarono un ruolo centrale, servì da stimolo per il consolidamento di un tessuto sociale centrato intorno alla resistenza nei confronti delle attività estrattive. Dopo il fallito tentativo di secessione del Biafra e la conseguente risposta brutale del governo, tra il 1970 e il 1990 emersero molti movimenti nel Delta. Il loro principale referente è stato il MOSOP (Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni), fondato da Ken Saro Wiwa nei primi anni 1990, leader della seconda grande rivolta del periodo post-coloniale. L’uccisione di Saro Wiwa nel 1995 insieme ad altri 8 membri dell’organizzazione, per mano della giunta militare guidata da Sani Abacha, ha consegnato al MOSOP uno “status di icona nel dibattito internazionale sull’ambiente e il potere e le responsabilità corporative delle multinazionali del petrolio [10].
Nelle parole di Dumpe, l’esecuzione dei 9 ogoni “ha inviato un segnale al resto del Delta; la protesta degli ogoni è sempre stata pacifica, il suo esito ha fatto pensare che la protesta pacifica non avrebbe condotto a risultati. Così la gente cominciò ad organizzare gruppi giovanili di opposizione armata, che noi chiamiamo gruppi militanti” [11]. L’indignazione originata dall’assassinio dei 9 ogoni e la dura repressione esercitata dalla Giunta di Abacha contro la società civile nel paese, alimentò la violenza. Dopo decenni di resistenza pacifica, le comunità del Delta si trovarono nella necessità di modificare le loro strategie. Tra il 1998 e il 1999, sono nati diversi movimenti nelle comunità ijaw, dando origine alle guerre Egbesu, la terza importante rivolta post-coloniale. Ormai in democrazia, nel primo decennio del XXI secolo la resistenza è cresciuta al caldo della frustrazione accumulata da una popolazione offesa.
La chiave del risarcimento
Negli anni 1990 e all’inizio del XXI secolo, i movimenti sociali nel Delta avevano obiettivi timidi, si limitavano a reclamare progetti di sviluppo per le loro comunità. Dall’inizio di questo secolo, il sorgere di movimenti militanti e il consolidamento di quelli già esistenti non conosce freno, si ampliano le rivendicazioni e si potenziano le strategie. Allo stato attuale, le resistenze nel Delta sono organizzate in reti estese, con l’obiettivo finale di ottenere il controllo delle risorse petrolifere presenti sul loro territorio. Si potrà porre fine alla crisi attuale, essi sostengono, soltanto attraverso misure volte a garantire la soddisfazione di questa esigenza.
Le mobilitazioni sociali nel Delta, dal “ritorno” della democrazia in Nigeria nel 1999, hanno obiettivi chiari. Chiedono, in primo luogo, una revisione della ripartizione dei proventi petroliferi, punto nodale delle richieste di Saro Wiwa negli anni ‘90. In secondo luogo, la creazione di nuovi nuclei di governo adattati alle realtà locali e, in terzo luogo, di combattere contro la povertà, costruire infrastrutture e lottare contro la disoccupazione. Infine, queste mobilitazioni fanno appello alla necessità pressante di generare uno sviluppo sostenibile nella regione attraverso il controllo delle risorse da parte delle comunità stesse.
Il gruppo più forte è attualmente il MEND (Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger), dal 2006 il principale gruppo di militanti armati nella regione. Chiede al governo federale e alle imprese transnazionali il risarcimento dei danni causati dall’industria petrolifera, anche se il suo obiettivo finale è quello di ottenere il controllo delle concessioni. E’ difficile conoscere la consistenza numerica di questo movimento, che varia tra diverse centinaia e qualche migliaio di membri. Dietro questa organizzazione si celano molti sottogruppi, alcuni dei quali operano a volte con altri nomi. La sua base sociale cresce, dal momento che in 10 anni di governo civile, le loro richieste non sono state accolte. Oltre alla legittimità sociale, nel corso degli anni essi sono riusciti a costringere il governo ad aprire un dialogo. Le minacce agli interessi petroliferi hanno obbligato le successive amministrazioni federali almeno ad ascoltare le loro rimostranze.
Come afferma Dumpe, “il problema è che le agitazioni che emergono a seguito della frustrazione derivante dalla protesta pacifica ora sono infiltrate da bande criminali. Ci sono gruppi organizzati che usano lo scontro nel Delta per arricchirsi, ma senza alcun tipo di legittimazione sociale” [12]. La confusione tra queste diverse attività permette alle imprese straniere e allo Stato nigeriano di legittimare le loro azioni repressive e di screditare, allo stesso tempo, le lotte legittime della società civile.
Alla domanda su un possibile miglioramento nella condotta delle imprese multinazionali e delle forze di sicurezza dello Stato, nel quadro di proposte come la EITI (Extractive Industries Transparency Initiative) [13], Dumpe ha risposto, “le filiali dicono di fare bene, ma le informazioni che passano alle case madri non sono sicure. I miglioramenti non sono stati significativi [14]. Concetti come “trasparenza” e “responsabilità sociale d’impresa” rimangono quindi in evidenza. Tuttavia, rileva Dumpe, “i nostri rapporti sono serviti a contestare le pratiche di Shell in Nigeria. Questa influenza è essenziale e ciò ha portato Shell, per esempio, a passare dalla assistenza alle comunità a parlare di sviluppo, quindi di sviluppo sostenibile e ora al ‘memorandum d’intesa’, un accordo negoziato con la comunità su alcuni progetti sociali . Per noi questo rappresenta un passaggio dalla filantropia a un tipo di partecipazione negoziata dalla comunità, ma non è abbastanza perché non è basato sulla equità, sul presupposto di cosa si debba fare dal punto di vista etico” [15]. E, naturalmente, sembra non essere sufficiente per le comunità del Delta del Niger, stanche di veder utilizzare il bastone e la carota con fini così disonesti.
Redazione Pueblos. Questo articolo è stato pubblicato sul nº 40 della rivista Pueblos, dicembre 2009.
Note
[1] United Nations Development Programme (2006): Niger Delta Human Development Report, Abuja, Nigeria: UNDP, p. 1
[2] IBEANU, Okechukwu (2006): Civil Society and Conflict Management in the Niger Delta: Scoping Gaps for Policy and Advocacy, CLEEN FOUNDATION MONOGRAPH SERIES, Nº 2, August 2006, Lagos, Nigeria: CLEEN FOUNDATION, p. 12
[3] Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (1994): Relazione sullo Sviluppo Umano 1994: Un programma per il Vertice Mondiale sullo Sviluppo Sociale, México D.F: UNDP-Fondo di Cultura Economica, p. 26
[4] United Nations Development Programme (2006): Op. cit, p. 131
[5] IBEANU, Okechukwu (2006): Op. cit, p. 12
[6] IBEANU, Okechukwu (2006): Op. cit, p. 12
[7] Civil Society Legislative Advocacy Centre (2007): Enhancing CSOS’s participation in the NEITI Audit Process in Nigeria, Abuja, CISLAC, p. 21
[8] Vedere: www.voluntaryprinciples.org/principles
[9] Vedere: www.un.org
[10] IBEANU, Okechukwu (2006): Op. cit, p. 3
[11] Intervista a Abuja, Nigeria, 10 settembre 2008, durante la celebrazione del Publish What You Pay Africa Regional Meeting
[12] Ibid
[13] Vedere: www.eiti.org
[14] Intervista a Abuja, Nigeria, 10 settembre 2008, durante la celebrazione del Publish What You Pay Africa Regional Meeting
[15] Ibid
Fonte: http://www.revistapueblos.org/spip.php?article1796
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