Finanza, Moneta, Economia: i tre elementi della tempesta perfetta. Il quarto cavaliere è la crisi geopolitico-militare
di Giorgio Vitangeli
Se fossimo in volo, dovrebbe già lampeggiare la scritta:”allacciare le cinture di salvataggio” ed il pilota dovrebbe almeno precisare: “stiamo avvicinandoci ad una zona di forti turbolenze”.Ma i piloti dell’economia mondiale credono che “pensare positivo” equivalga a dire sempre al popolo sovrano: “tutto va ben, madama la marchesa”, ed anche quando si imbocca un tornado, come quello del 2007-2008, e l’aereo rischia di schiantarsi, tutto quello che arrivano a dire è che l’economia sta attraversando un periodo di “turbolenze”.
Qualche sobbalzo improvviso, insomma, magari un po’ di paura, ma ben presto tutto passa, e si torna a volare tranquilli.
Gli ottimisti continuano a dire che la ripresa è ormai dietro l’angolo, e che già se ne vedono qua e là i segni, seppure un po’ deboli. Ma alcuni analisti finanziari cominciano ad essere seriamente preoccupati. Temono cioè che dietro l’angolo non vi sia la ripresa economica, ma una crisi ancor più devastante di quella del 2007-2008, e che già sul finire di quest’anno alcuni nodi potrebbero venire al pettine
Io mi limito a fare alcune constatazioni.
Ricordate “La tempesta perfetta”, un bel film di alcuni anni orsono in cui il protagonista finiva col suo peschereccio proprio in un punto del mare in cui convergevano tre uragani? Ebbene io penso che l’economia mondiale sia entrata in una “crisi perfetta”, in cui convergono e interagiscono tre crisi diverse, ed una quarta se ne sta formando.
La prima crisi è quella monetaria, la seconda è quella finanziaria, la terza è quella economica e la quarta che sta maturando è quella geopolitico- militare. Le prime tre poco meno di quattro anni or sono hanno portato l’economia globale sull’orlo del collasso sistemico.
Il punto è: cosa è stato fatto dal 2007 ad oggi per correggere gli errori evidenti e conclamati che hanno condotto il mondo ad un passo dalla catastrofe? La risposta è desolante: nulla, o quasi. E le cose hanno ripreso ad andare come prima, e quindi verso lo stesso sbocco.
Ma vediamoli rapidamente, uno ad uno, questi quattro “Cavalieri dell’Apocalisse”.
Cominciamo dalla crisi monetaria. Era il ferragosto del 1971 quando l’allora presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, revocando unilateralmente il sistema monetario internazionale concordato a Bretton Woods dai vincitori del secondo conflitto mondiale, annunciò al mondo che il dollaro non era più convertibile in oro al prezzo stabilito e fisso di 35 dollari l’oncia.
Da allora, e son passati più di quarant’anni, nessun nuovo sistema monetario internazionale ha sostituito quello di Bretton Woods. Nei primi anni dopo il 1971 si è assistito a quella che l’economista inglese Susan Strange ha definito una “ignobile pantomima”, nel corso della quale economisti e politici fingevano di dibattere sulle linee del nuovo sistema monetario internazionale. Poi hanno smesso anche quella finzione.
Da quarant’anni la moneta internazionale è il dollaro-carta. Una montagna di carta che gli Stati Uniti, senza più il vincolo della copertura aurea, hanno emesso a volontà, assieme ai Buoni del Tesoro. Ad assicurare l’ equilibrio precario di questo “non sistema” due fatti: i Paesi petroliferi depositavano in America i dollari che ricevevano in cambio del petrolio, e sottoscrivevano i Buoni del Tesoro Americano, e lo stesso facevano i cinesi, divenuti nel giro di questi ultimi decenni i maggiori esportatori di merci ed i maggiori sottoscrittori di Buoni del Tesoro degli Stati Uniti.
Di qui una prima constatazione. Che il petrolio sia denominato e pagato in dollari è vitale per gli Stati Uniti. La loro economia rischia il collasso se il prezzo del greggio fosse denominato in euro, o in un paniere di valute, e il petrolio non fosse più pagato in dollari. Che è quello che aveva cominciato vagamente ad ipotizzare il ministro del petrolio saudita, lo Sceicco Yamani e che avevano annunciato di voler fare prima Saddam Hussein, e poi qualche mese fa Gheddafi. Yamani un mese dopo aver ipotizzato uno sganciamento del prezzo del petrolio dal dollaro non era più ministro.
Saddam Hussein da vecchio alleato degli Stati Uniti contro l’Iran divenne all’improvviso l’ “Hitler del Golfo” e Gheddafi il “tiranno” che deve lasciare il potere, se si vuole che la pace e la “democrazia” tornino in Libia, come notoriamente sono tornate in Iraq.
Ma né la guerra in Iraq né quella in Libia possono cambiare un dato di fatto: questo meccanismo di debiti Usa non può durare all’infinito: più dura e s’innalza, più la prospettiva di un crollo diventa inevitabile e vicina. Due numeri bastano a misurare la voragine che si è aperta in questi quarant’anni. Nel 1971, prima dell’abbattimento del sistema di Bretton Woods, 35 dollari compravano un’oncia d’oro fino. Ora, per comprare la stessa oncia d’oro, di dollari ce ne vogliono circa 1.500. Analogamente: due dollari circa bastavano a comprare un barile di petrolio. Ora ce ne vogliono più di cento. Questi due dati ( significativamente convergenti: cinquanta volte circa i prezzi di allora ) misurano la perdita del potere d’acquisto della cartamoneta statunitense rispetto all’oro ed all’ “oro nero”.
Qualche settimana or sono ha sollevato scalpore il fatto che Standard&Poor’s, pur confermando per i titoli del Tesoro americano la tripla A, cioè il massimo dei voti, abbia abbassato l’outlook, cioè il giudizio prospettico, da “stabile” a “negativo”.E’ sembrato quasi un giudizio di “lesa maestà”, e molti sono rimasti sorpresi. A noi sorprende, semmai, che questa mezza ammissione sia giunta così tardi, e che i titoli del Tesoro Usa conservino la tripla “A”.
Un altro sinistro scricchiolio viene in questi giorni direttamente dal Tesoro degli Stati Uniti. Il debito pubblico americano ha, per legge, il limite di 14,2 trilioni di dollari (un trilione negli Usa è uguale a mille miliardi). Ma tale limite, secondo le prime stime, sarà superato entro questo mese di maggio. Con tecnicismi di cassa e grazie a maggiori entrate fiscali il Segretario al Tesoro, Timothy Geithner, riuscirà a spostare il momento della verità fino ai primi di agosto. Ma dopo? Teoricamente, superato il limite massimo d’indebitamento pubblico, dovrebbero essere bloccati tutti i pagamenti da parte delle Istituzioni pubbliche, non dovrebbero essere pagati gli interessi sui Buoni del Tesoro, né saldati quelli in scadenza, che diverrebbero cartastraccia. Insomma: la bancarotta degli Stati Uniti, che trascinerebbe con sé l’economia mondiale.
Naturalmente uno scenario simile è impensabile.
Il segretario del Tesoro Geithner vorrebbe alzare a 16 trilioni di dollari il limite massimo di indebitamento dello Stato, con una decisione “bipartisan” che trova però resistenza in seno al partito repubblicano, e intanto pensa a misure di emergenza. Nel frattempo però il debito pubblico sfiora ormai il 100% del “pil”, mentre il disavanzo annuale, a seguito dei massicci aiuti statali al sistema bancario, ha raggiunto l’11% .
Ed eccoci così al secondo cavaliere dell’APOCALISSE: la crisi finanziaria. Essa sembra alle spalle, ma in realtà poiché – salvataggi delle grandi banche d’investimento a parte – nulla di risolutivo è stato deciso, il fuoco cova sotto la cenere si sta anzi ravvivando e le fiamme possono divampare nuovamente da un momento all’altro.
La Commissione d’indagine “bipartisan” del Senato americano, presieduta dal democratico Carl Levin e dal repubblicano Tom Coburn ha reso noto il suo rapporto “Wall Street and the financial crisis: anatomy of a financial collapse”, ed oltre a mettere sotto accusa banche d’investimento, organi di controllo, agenzie di rating, cioè tutto il sistema, lancia un nuovo allarme. La Federal Reserve continua ad inondare il mercato di liquidità, tentando così di ravvivare la ripresa dell’economia. In realtà sta ravvivando la speculazione. Lo scorso anno infatti a guadagnare a piene mani sono state più che altro le banche. Le cinque maggiori banche americane hanno guadagnato poco meno di venti miliardi di dollari (tre in più dell’anno prima) grazie ad operazioni su derivati per un valore nozionale di 231 trilioni di dollari.
Le “fabbriche di prodotti finanziari” sono tornate infatti a lavorare a pieno ritmo. Cartolarizzazioni e prodotti derivati crescono di giorno in giorno. Se ieri erano i mutui ad essere “impacchettati” e rivenduti, senza guardar tanto per il sottile sulla loro credibilità, oggi si impacchetta di tutto: mutui, debiti delle carte di credito, debiti per acquisti a rate di automobili e di altri beni. Insomma: qualunque debito viene mescolato ad altri, impacchettato, infiocchettato e rivenduto. Ora poi anche i Paesi emergenti hanno imparato ad emettere “Junk bond” cioè obbligazioni-spazzatura, ad alto rendimento e ad ancor più alto rischio. Ed ancora una volta se la catena dei pagamenti s’interrompe, salta tutto.
Gli hedge funds, cioè i fondi d’investimento più speculativi, dal canto loro gestiscono oggi due trilioni di dollari: un livello mai prima raggiunto.
In questo scenario , come ha scritto il”New York Times” “i lupi del mercato sono tornati a ululare”. Prima il branco ha attaccato le “commodities”, cioè i prezzi delle materie prima e delle derrate alimentari. Un risultato è stato quello delle “rivolte del pane” in Tunisia ed in Egitto. La scorsa settimana invece la Grecia e l’euro sono stati al centro di voci e manovre. L’edizione on-line di “Der Spiegel” ha lanciato una notizia-bomba: la Grecia gettava la spugna e stava per abbandonare l’euro, tornando alla dracma, ed a Lussemburgo era convocata una riunione ristretta di ministri finanziari dell’Unione europea.
La seconda notizia era vera; la prima era falsa, almeno per ora. Intanto però al solo annuncio l’euro ha cominciato a perdere terreno rispetto al dollaro, scendendo repentinamente dalla soglia di un dollaro e mezzo per euro, che stava lambendo due giorni prima, a 1,43. In due giorni l’oscillazione è stata del 4%. Ed i mercati delle “commodities” hanno cominciato a ballare anch’essi , con oscillazioni spaventose: fino al 10-12% di differenza in pochi minuti. Qualcuno ha guadagnato a piene mani; per altri è stato un bagno di sangue.
Lasciamo perdere complottismi e dietrologie. Ma è curioso che per la seconda volta la bordata contro Atene sia venuta dalla Germania. “Per chi vede le forze della speculazione sempre in agguato – ha scritto Il Sole-24 Ore- un indizio simile può rappresentare più di una prova delle macchinazioni degli investitori a danno della Grecia”.
Ma che accadrebbe se la Grecia davvero abbandonasse l’euro per tornare alla dracma? Il quotidiano della Confindustria riassume così le probabili conseguenze: lo sganciamento del sistema bancario greco da quello europeo genererebbe una corsa agli sportelli dei risparmiatori e danni incalcolabili alle imprese, quindi fallimenti, disoccupazione, inflazione. La svalutazione della dracma farebbe crescere del 50% il debito in valuta di Atene. C’è da aggiungere che il collasso della Grecia rischierebbe di innescare, con reazione a catena, quelli del Portogallo e dell’Irlanda, ed il progetto della moneta unica europea andrebbe in frammenti, mentre le banche europee dovrebbero far fronte a nuove colossali perdite. E c’è anche da aggiungere – e non è la cosa meno importante – che né la Grecia, né il Portogallo né l’Irlanda possono sopportare le condizioni draconiane che si vorrebbe imporre loro per concedergli i prestiti necessari ad impedirne il “default”. Per la Grecia si è parlato addirittura di una sorta di “commissariamento” e del pignoramento dei beni demaniali (edifici pubblici, strade, coste) a garanzia dei prestiti. Nessun Paese può accettare una simile umiliazione; nessun popolo accetta supinamente di veder regredire penosamente le proprie condizioni di vita per pagare interessi alle banche.
Ed eccoci infine alla terza crisi: quella dell’economia. La ripresa è davvero dietro l’angolo, o addirittura già in atto? Lasciamo stare i Paesi cosiddetti “emergenti”, cioè Cina, India, Brasile e Russia, ove l’economia cresce a tassi ancora rilevanti. (Ma quanto può durare tale crescita se cadono le importazioni dell’Occidente?). E lasciamo anche i dati effimeri e contrastanti di altri Paesi dell’Occidente, Stati Uniti in primo luogo.
Per l’Italia, due constatazioni.
La prima: l’Agenzia Moody’s ha declassato il “rating” di Intesa-Sanpaolo da Aa2 ad Aa3. Le ragioni ? La banca, è vero, ha in atto un forte rafforzamento patrimoniale, con un aumento di capitale di ben 5 miliardi di euro, ma Intesa-Sanpaolo concentra la sua attività soprattutto in Italia. E le prospettive di crescita dell’economia italiana secondo Moody’s sono “deboli ed incerte”. La stessa Intesa-Sanpaolo nel suo piano industriale stima prudentemente per il prossimo triennio una crescita della nostra economia pari allo 0,8% all’anno. Ma se l’economia non torna a crescere, argomenta Moody’s, non può crescere la redditività della banca, ed anzi molte imprese entreranno in affanno, la qualità del credito peggiorerà, ed aumenteranno ancora le “sofferenze”.
Seconda constatazione. Secondo dati resi noti da Symphony Iri Group, nella grande distribuzione da un anno a questa parte per la prima volta si è notata una flessione dei consumi anche nei beni di prima necessità: dagli alimentari come pane, pasta, uova, vino comune caffè ecc. ai detersivi ed ai prodotti per l’igiene.
Le conclusioni tiratele voi.
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