di Pino Cabras – Megachip.
Molte analisi si accontentano di guardare ai tempi recenti, per capire dove stiamo andando, intendere cosa sia accaduto al capitalismo e – scrutando con più interesse il luogo in cui viviamo – intuire perché si sia inceppata l’Italia. Tuttavia non dobbiamo limitarci a vedere le ragioni dello sfacelo nei comportamenti attuali dell’associazione a delinquere raccolta intorno al Piccolo Cesare, né nell’insipienza delle caste concorrenti.
Di recente un arco di riflessioni molto profonde è stato a più riprese pubblicato da Marino Badiale e Massimo Bontempelli. È uno dei tentativi più interessanti di costruire un pensiero politico all’altezza della grande crisi in corso. Un percorso di lettura utilissimo.
In effetti occorre uscire dalle riflessioni contingenti, e spaziare lungo una vicenda storica più estesa. Da dove viene questa crisi? In quale momento certe svolte sono diventate irreversibili?
Possiamo dire prima di tutto che la vera faccia del capitalismo, non solo italiano, si palesava completamente già nell’arco di tempo ricompreso fra la metà degli anni settanta e la seconda metà degli anni novanta.
Perché quel periodo è così importante? Dal punto di vista economico e sociale è proprio in quella fase che si è chiuso il ciclo aperto dalla seconda guerra mondiale. Poi è venuta la fase post 11/9, le crisi convergenti, l’emergere multipolare di altre potenze, ecc. Ma è la fase che precede questi sviluppi a interessarci per via di una sua compiutezza, che qui voglio rievocare.
Quella fase era il compimento del piano Marshall, lo strumento dell’affermazione egemonica del capitalismo anglosassone, dominato da un’élite transnazionale che tendeva a distinguersi dalle «nazioni» e che non calcava l’appartenenza a una comunità nazionale (per quanto teorizzasse comunque la ‘Leadership Americana’). Era questa élite a promuove senza sosta l’apertura dei mercati dei beni, dei servizi, delle persone e dei capitali.
L’egemonia anglosassone subiva e riassorbiva anche gli effetti di disegni concorrenti, quelli che hanno portato poi all’Euro o alla crescita della Cina come “fabbrica del mondo”, dentro un inesorabile progetto di riproduzione allargata del capitale su una scala che coinvolgeva e sconvolgeva l’intero globo.
La “globalizzazione” era il livello superiore verso cui convergeva l’accumulazione estesa del capitale nel sottosistema della manifattura e della diffusione dei beni. Per qualche decennio il motore dell’accumulazione permetteva che si allargasse la socializzazione e l’acquisizione dei saperi e delle capacità degli individui, cosa che facilitava alla crema del capitale l’appropriazione del plusvalore. Scuole, formazione, crescita diffusa di nuovi desideri per nuovi consumi: erano tutti elementi ben funzionali a una tale riproduzione. Fino a un certo punto la classe media era fondamentale per l’espansione.
Il punto di svolta, con tutte le sue importanti conseguenze, fu superato già negli anni settanta. Come ricorda Richard K. Moore in un suo saggio interessante e visionario, da lì in poi, «il capitale non ha cercato la crescita attraverso un aumento della produzione quanto piuttosto estraendo maggiori rendimenti da livelli di produzione relativamente piatti. Da qui la globalizzazione, che ha spostato la produzione verso aree a bassi salari, fornendo maggior margini di profitto. Da qui la privatizzazione che trasferisce i flussi di entrate a investitori che prima si rivolgevano nazionalmente al Tesoro. Da qui, i derivati e i mercati valutari che creano l’illusione elettronica della crescita economica, senza effettivamente produrre nulla nel mondo reale.»
Il processo trasformava la struttura demografica e la società, determinando costi che allora non erano percepiti interamente. Erano già presenti i presagi di quanto sarebbe stato conosciuto più avanti in pieno nei paesi ricchi: la de-industrializzazione, l’alba della crisi sociale delle classi medie, le nuove povertà in Europa e negli Stati Uniti. Il boom del Pacifico preannunciava l’emergere di un capitalismo neo-industriale e finanziario destinato a cambiare il pianeta. Qualcuno più sensibile e attento, come un altro Moore, il Michael Moore di Roger and Me, intuiva la portata devastante della nuova pelle di cui si rivestiva il capitalismo. Ma nel 1989 Michael Moore era uno sconosciuto.
Enormi fette di popolazione un tempo assoggettate a lavori servili in agricoltura, a ridosso dei livelli di sussistenza e sotto il tallone di poteri oligarchici molto chiusi, erano state definitivamente “liberate”, fino a entrare nei meccanismi sociali moderni dominati dal capitalismo. Quote mai viste della popolazione avevano praticamente perso la percezione della millenaria fatica agricola. Il tutto era avvenuto con una rapidità che concentrava non solo i tempi, ma anche i costi della “modernizzazione senza sviluppo”.
I circoli virtuosi della crescita erano giunti però al capolinea, proprio nel momento in cui sembravano interminabili. Anche in Europa non si sapeva ancora quanto moriva dei decenni precedenti, né cosa davvero si affacciava, in vista dei decenni successivi.
Finivano i protezionismi continentali e nazionali. A dispetto delle aperture di mercato sub-sistemiche, che avvenivano in dosi crescenti verso la dimensione globale, resistevano ancora le strutture portanti della ricostruzione regolata dei mercati iniziata alla fine della seconda guerra mondiale, quando si erano impennati tassi di crescita del PIL mai visti prima di allora né mai dopo.
L’economia postbellica era cresciuta in fretta. Quella crescita appariva il modo di essere normale dell’economia. Le tecnologie erano meno facilmente trasferibili. Il mercato del lavoro aveva perimetri nazionali. Le elevate capacità di saper fare erano merce diffusa, trasferibile solo scontando gravose asimmetrie. C’erano meno concorrenti. Le imprese si concentravano radunando e inquadrando vere e proprie “popolazioni organizzate”. Non c’era la polverizzazione sociale che abbiamo visto dopo. Funzionavano le barriere all’entrata nei confronti di nuovi concorrenti. Il capitale aveva bisogno di nuovi sbocchi.
In seguito il progetto capitalista si proiettava verso i punti più avanzati della sua agenda. Era la marcia trionfale della globalizzazione macro-regionale e della globalizzazione planetaria.
Parliamo del cuore del progetto sospinto dalle forze contrarie all’isolazionismo del colosso nordamericano: veri poteri forti che puntavano all’estensione massima del mercato globale, al fine di assicurare la riproduzione dilatata e intensiva del capitalismo. Era l’unico modo per non far crollare i livelli dei consumi in Nord America, senza i quali sarebbe stato messo in discussione lo stesso ordine sociale, intanto che si ampliavano le differenze fra il superclan al vertice della piramide sociale e l’enorme base sociale del ceto medio che considerava invece acquisito il suo pur minacciato tenore di vita.
La svolta liberista estesa su tutto il pianeta aveva la sua “window opportunity”: non c’era più – a un certo punto - il contrappeso sovietico a frenare la sua carica egemonica. E questa nuova egemonia era da rilanciare con una nuova potente fase di crescita - ancora crescita - costasse quel che costasse, stavolta senza vincoli e macroregole, tranne quelle che potevano facilitarle il compito. Nessuna prudenza sociale, nessun vincolo al “consumo di futuro”, da nascondere semmai nelle pieghe dell’indebitamento crescente.
La globalizzazione nella sua dimensione “macro-regionale” in Europa venne attuata con la scorciatoia monetarista. Non c’è stata un’unificazione “virtuosa” dei mercati: quelli delle merci, dei capitali, dei servizi e delle forze di lavoro.
Ha prevalso l’impostazione germanica: una moneta forte, l’obiettivo dell’alta produttività, l’innovazione nei servizi, nei processi e nei prodotti.
Dove sarebbe il problema, direte? Il problema è che questi erano solo obiettivi retorici per la maggior parte delle classi dirigenti dei vari stati. Per perseguire simili politiche sarebbero occorse consistenze statuali e nazionali molto forti, in grado di adattarsi con forza alle regole eurocratiche senza devastare la propria sovranità e le basi della propria legittimità, partendo proprio dall’economia.
La via tedesca alla globalizzazione europea poteva reggere solo per due protagonisti europei: uno era il suo interprete più autentico e già egemone, cioè proprio la Germania, l’altro era il soggetto egemone nel campo cruciale e “atlantico” dei mercati finanziari che guidavano la deregulation planetaria: la Gran Bretagna, che peraltro si teneva fuori dall’Eurozona.
È proprio in quel momento che da noi è finito per sempre il matrimonio fra crescita e occupazione, cioè fra la crescita e le condizioni basilari che creano consenso e prassi per lo sviluppo.
Le classi dirigenti nazionali che nei decenni scorsi non capivano questo punto di svolta della storia hanno avuto un limite culturale e politico macroscopico, con la scusante di vivere certi fenomeni con la sorpresa della prima volta. Le classi dirigenti che non lo capiscono oggi rivelano invece una colpa gravissima e una condotta scellerata, che apre altre praterie alle scorrerie dei poteri occulti dell'élite globalizzatrice.
Questo quadro storico, politico ed economico ricco di interconnessioni offre il contesto giusto per riflettere anche sull’origine delle questioni domestiche attuali della Repubblica Italiana.
Il primo crollo delle potenzialità industriali fu quello della siderurgia e dell’industria di base di mano pubblica, sotto i colpi esogeni della concorrenza internazionale e quelli endogeni del deterioramento dello stato amministrativo, degradatosi nello stato dei partiti.
Oggi giustamente si lamenta il disastro dei conti Telecom per come la compagnia è stata spolpata e indebitata nel suo processo di privatizzazione, ma va anche ricordata la condizione di profondo degrado della holding pubblica Iri, nel cui seno stavano le uniche realtà “salvabili”, ossia proprio il monopolista telefonico e le industrie a produzione militare. Il disastro della Telecom privata di oggi non è insomma l’opposto di una presunta Età dell’Oro pubblica, ma è figlio di un altro disastro che si era consumato chiudendo per sempre un intero ciclo del capitalismo italiano.
Altro discorso riguarda l’Eni, per ragioni storiche e specifiche del settore. La sua missione è sopravvissuta ad assalti e parassitismi di ogni tipo che pure a più riprese le sono entrati in casa. Ma di certo è finita da decenni la sua funzione propulsiva per l’industrializzazione di base all’interno dei territori italiani. Ne è seguito un lungo ripiegamento che ha accompagnato la deindustrializzazione di vaste aree, che non hanno visto sostituirsi qualcosa di paragonabile.
Così come da decenni avremmo già dovuto constatare il decesso della capacità di dar vita a diversi poli industriali del sistema oligopolistico chimico-meccanico-tessile-informatico. Esemplari i meccanismi ciclici di salvataggi-privatizzazioni-pubblicizzazioni-salvataggi, sempre con denaro pubblico, associati al settore meccanico-automobilistico, cioè alla Fiat. Intanto che il quondam Gianni Agnelli, come ora viene rivelato grazie alle beghe ereditarie, su conti cifrati esteri faceva riparare valori dell’ordine dei miliardi di euro sottratti al fisco, la Fiat diveniva quel che è tuttora, dapprima in scala nazionale, poi su scala globale: un’impresa zombi specializzata nel succhiare risorse pubbliche, impegnata non più a segnare il passo della crescita, bensì l’esatto opposto: una ritirata industriale contrattata e costosissima, con il corollario della fine delle vecchie “popolazioni organizzative”.
Nella fase che stiamo rievocando si esauriva anche qualsiasi capacità espansiva del settore chimico, un perfetto esempio del nostro capitalismo senza capitali, incapace di reagire al restringersi del suo piccolo giro monopolistico-finanziario. Molti sistemi di ricatti politici fra protagonisti della vita economica e politica degli anni successivi, con scie proiettatesi sino a oggi, hanno avuto origine nelle “guerre chimiche” di fine anni ottanta.
Un altro ciclo esauritosi negli anni novanta era quello del sistema oligopolistico-bancario. Il sistema delle caste politiche lo aveva avviluppato con un reticolo di mostri giuridici e fondazioni che cercavano di accedere alle risorse finanziarie in modi diversi dai più rozzi ladrocini precedenti. Le privatizzazioni che sono seguite non hanno intaccato il meccanismo. Hanno comportato razionalizzazioni verticali e concentrazioni che hanno trasferito interamente nel Nord del paese il cuore del sistema bancario. Ma l’insieme è tutto tranne che un motore di crescita. Anche qui un inceppamento con effetti permanenti.
Fino agli anni novanta si credé nell’ultimo grande ciclo ritenuto irreversibile e innovatore, autopropulsivo e all’altezza della globalizzazione: l’interminabile ciclo della piccola e media impresa, dei distretti industriali della Terza Italia, fucine di occupazione e di nicchie di mercato aperte al mondo. Quanti politici cercarono di cavalcare l’illusione che i distretti sarebbero entrati in sistema, portando un nuovo capitalismo al centro del mondo? I capannoni vuoti - nel Nordest italiano e non solo - oggi ci raccontano quell’abbaglio. La scala gerarchica chiusa del nostro mercato dei capitali non si è mai schiodata dall’affidare alle sole seconde e terze linee della liquidità la gestione finanziaria delle imprese sottocapitalizzate dei distretti, negli stessi anni in cui le manifatture cinesi interagivano invece con risorse coordinate, programmi di vasta portata, proiezioni decennali e investimenti nel sapere.
Niente di meglio che osservare la faccia di Pierluigi Bersani in visita a un’industria decotta per vedere che c’è sempre chi non capisce quando un’epoca è finita senza rimedio.
Poteva compiere quel salto – da distretto a sistema - solo una società in cui fossero diffuse le competenze e le capacità. Solo che negli anni novanta non l’ultima delle regioni, ma l’opulenta Lombardia aveva tassi di scolarizzazione inferiori alla media europea. E da allora la Lombardia ha regalato al sistema scolastico – via Calabria – la ministra Gelmini, per dire. Potete capire quale “crescita” potrà venire da un ordinamento che taglia le risorse dell’istruzione di un quarto in un anno. Potevamo già saperlo registrando il deficitario standard nell’epoca in cui si chiudevano i cicli del capitalismo italiano. Oggi basta vedere l’unanimità di sguardi attoniti di coloro che hanno ancora memoria di cosa debba essere l’istruzione, quando contemplano il paesaggio di macerie di scuole e atenei, intanto che Cina e India sfornano ciascuna più di mezzo milione di ingegneri all’anno.
Abbiamo tralasciato un altro importantissimo ciclo sullo sfondo. Anch’esso è un ciclo che ha trovato una sua chiusura tra gli anni settanta e gli anni novanta: l’industria dei media di massa. Berlusconi ebbe la funzione di accentrare e blindare in un kombinat politico-televisivo-editoriale dominante tutti i meccanismi di remunerazione dei media, in modo da rendere preponderante la risorsa pubblicità. L’80% del gettito pubblicitario proveniva dal cartello mondiale delle agenzie di pubblicità che investiva per conto dei propri utenti-inserzionisti, in notevole misura società multinazionali, che ridisegnavano con enorme forza di penetrazione i meccanismi della vendita dei beni e servizi secondo i loro interessi, e facevano evaporare un flusso senza precedenti di fatturati che finivano all’estero e restringevano il bacino di riferimento industriale nazionale per i nuovi consumatori “rieducati”.
I meccanismi residuali di remunerazione dei media lasciati dal moloch pubblicitario dominato da Berlusconi erano due: i ricavi da vendite dirette o indirette, e i contributi di istituzioni e amministrazioni pubbliche. I primi favorivano e favoriscono tuttora soltanto i prodotti importati. I secondi erano in ruolo ancillare rispetto al kombinat berlusconiano e sono stati via via ridotti (si legga Glauco Benigni, Le tre risorse per i media). Nel complesso il ciclo in questo settore si è congelato intorno all’uomo di Arcore. Contrariamente a una delle leggende più tenaci diffuse da Berlusconi, ossia che il sistema di raccolta pubblicitaria da lui realizzato con Dell’Utri abbia fornito sbocchi prima preclusi al Made in Italy, si creò invece un gigantesco spostamento di potere verso il bi-polo produzione/consumo a tutto svantaggio dell’industria italiana, dei suoi insediamenti precedenti, di tutte le dinamiche del lavoro e delle loro rappresentanze. Il sigillo politico ha chiuso questo equilibrio politico ed economico, rendendogli culturalmente satellite anche gran parte dei presunti oppositori.
Questa asfissia dei vecchi cicli economici ha reso l’Italia un ambiente chiuso, provinciale, con classi dirigenti incapaci di ripensare la missione del Paese. Nulla ha sostituito le protezioni finite all’epoca in cui terminavano questi cicli economici e politici assistiti da un sistema daziario e da una qualche autarchia.
Il blocco patrimoniale del vecchio controllo familistico sulle grandi imprese ha operato da quel punto in poi rifuggendo l’innovazione imprenditoriale, per specializzarsi ulteriormente nel sistema di pubbliche relazioni che gli assicurava nicchie, rendite di posizione monopolistiche mascherate da privatizzazioni, con pedaggi e contributi sicuri. C’è una inclinazione ormai totalmente parassitaria del capitalismo mondiale che ci è testimoniata dalle vicende della grande crisi finanziaria globale. In Italia questa fase si è saldata con la selezione di una classe dirigente alla fine dei cicli anzidetti, fino ad esprimere quel tratto cialtrone delle nostre “cricche” incistate nella “casta”. La compagnia di giro dei profittatori all’inseguimento delle Grandi Opere in Italia ha ormai palesemente l’intento di non concluderle. Il sistema non si è mosso dal neopatrimonialismo fondato sul debito statale, un sistema di gruppi affaristici e clan politici che saccheggiava la spesa pubblica e il territorio, né ha abbandonato i tratti dell’economia politico-collusiva. Il paradosso è che – si tratti di Alta Velocità, di Expo, di Piani Casa, di ricostruzioni post-sisma – ogni depredazione che vada a erodere le basi già compromesse dalla fine dei grandi cicli economici si presenta in modo bipartisan come una promessa di “crescita”, impossibile da mantenere.
La crescita a debito degli anni ottanta alla fine si risolse nell’aumento delle sclerosi corporative della società italiana, gestite da un potere oligarchico e oligopolistico fra i più avidi del pianeta. Nulla fa pensare che una pur improbabile «crescita» oggi potrebbe essere gestita virtuosamente, anzi. Sarebbe iattura novella aggiunta a ventennale iattura. Di cosa parlano allora i politici che auspicano un “Patto per la crescita”, oggi come negli anni novanta?
La crisi nel nostro Paese va al cuore del processo che tiene insieme la nazione, come accade sempre in Italia per le crisi serie. La disgregazione degli anni quaranta o la crisi del 1992-1993 si accompagnarono a spinte che mettevano in discussione la tenuta dell’Italia in quanto stato unitario. Se oggi appare di nuovo attuale la possibilità di una disintegrazione del Paese, significa che c’è stata come una lunga «gelata» che lo ha mantenuto nelle stesse condizioni dei primi anni novanta. La lunga egemonia di Berlusconi ha sin qui congelato il problema.
Sempre più appare chiaro alle potenze della finanza e degli Stati che hanno guidato la globalizzazione, e che a suo tempo avevano puntato su Berlusconi per americanizzare l’Italia e renderla un paese compiutamente consumista e in via di deindustrializzazione, come ora egli non appaia in grado di reggere l’urto del declino della repubblica. Come in altre occasioni puntano su tanti e disparati cavalli, altrettanto incapaci di un alternativa al declino: ad esempio Gianfranco Fini, ma perfino Nichi Vendola, come decantano certe centrali massoniche. E finanche il depotenziato e filobritannico Beppe Grillo potrebbe far loro gioco. Nel frattempo magari un governo tecnico toglierà qualche castagna dal fuoco e venderà un po’ di argenteria per poter narrare ancora per qualche anno la favoletta della futura ripresa. Il racconto della crescita è stato il punto cardine degli interventi sulle crisi: non sarà dismesso facilmente, se perfino i sei punti in meno di PIL sono spesso pazzescamente definiti «crescita negativa».
L’obiettivo cardine della crescita è stato una forzatura, una chimera che ha fatto perdere importanti occasioni, quando forse si poteva rimettere ordine nella “missione” della nostra strana nazione. Anche nel fatidico 1992.
Allora, gli industriali esportatori da una parte, la Comunità europea dall’altra, spinsero a svalutare la lira dell’8%. L’azione coordinata di pochi speculatori trascinò i mercati internazionali a un tasso di svalutazione cinque volte maggiore, superiore al 40%. Nel 1988 si scambiava un marco tedesco con 800 lire, ma nel 1992 non ne bastavano 1200. Era diventata insostenibile la classica crescita con la droga della svalutazione.
Il ponte di comando del capitalismo finanziario internazionale mise i piedi nel piatto e sostituì definitivamente il potere del capitalismo industriale e bancario su basi nazionali fino a prescrivere ai governanti italiani una diversa “promessa” di crescita. Sempre lei.
La nuova regolazione si presentava con un precedente che aveva funzionato: in fondo, il boom degli anni cinquanta e sessanta era partito con bassi livelli di consumi, salari non in espansione, apertura internazionale, forti controlli alla spesa pubblica, bassi tassi d’inflazione.
L’unica differenza, enorme, era la crescita delle imposte a servizio del mostruoso debito pubblico accumulato negli anni ottanta, più un vasto programma di privatizzazioni.
La caduta dei consumi del 1993, in mezzo a una tempesta di sacrifici che fecero dimagrire le classi medie e lavoratrici, si accompagnò a un calo dei tassi d’interesse e dell’inflazione, nonché a una lira che si rafforzava nei confronti del marco, fino a un rapporto di cambio di 1000 a 1.
Ma la disoccupazione si portò al 12%, che significava tendere al 30% nel Sud, cifra ulteriormente scomponibile per età fino a fotografare intere coorti di nuove generazioni che nel Mezzogiorno non trovavano lavoro. La svalutazione aveva ampliato gli squilibri storici fra Settentrione e Meridione. Al Nord si esportava e si conservavano posti di lavoro. Il Sud sperimentava la fine dell’industrializzazione dall’alto e il termine dell’espansione del blocco clientelare d’intermediazione della spesa pubblica.
Il debito accennava a un lieve calo nel paese che però già sborsava meno di tutti nella comunità europea in favore della spesa sociale, per la sanità, per la scuola: un paese che aveva per giunta un sistema pensionistico squilibrato a discapito delle nuove generazioni, e che subiva un’altissima evasione fiscale.
Gli accordi sindacali del 1993 pattuirono una ritirata dei lavoratori in nome del difficilissimo equilibrio di un sistema che non intaccava i suoi difetti di fondo. I sindacati dei lavoratori accettavano un arretramento in nome di una futura crescita del PIL.
Nulla cambiava invece per il magmatico blocco sociale che si estendeva dalle classi dominanti assistite fino a un vasto ceto medio improduttivo. Da quelle parti, il mito della crescita era più irresponsabile ancora, più sperperatore, più prono all’illegalità di massa. Negli anni successivi quel mito ha consumato ulteriori porzioni di futuro, e ha selezionato intere generazioni di individui e dirigenti del tutto impreparati ad affrontare una crisi di proporzioni epocali.
Si è selezionata cioè una nazione che non sa dirsi la verità, con giornali e politici che non la sanno e non la saprebbero raccontare.
Perché così tanti hanno creduto al mito, anche quando scricchiolava, perfino oggi che sopravvive ormai di decenni alle sue reali basi materiali?
Il nesso fra la corruzione e il capitalismo delle collusioni e delle rendite di posizione poteva nascondersi dietro la crescita della Milano da bere e a rimorchio di tutte le baldorie degli anni ottanta.
Le statistiche Istat sui consumi delle famiglie – registrate negli anni cruciali della trasformazione e del compimento dei cicli economici - a rileggerle, fanno impressione: dal 1973 al 1985 i consumi in alimentari e bevande quintuplicavano, mentre i consumi non alimentari crescevano di oltre sei volte. E questo avveniva in modo omogeneo dal punto di vista geografico e sociale. In termini di riproduzione capitalistica era una forte polarizzazione verso i consumi che si accompagnava a una depolarizzazione sociale. Era una mutazione antropologica già in atto, alla quale l’apparato berlusconiano poi mise un motore che la sovralimentava.
Il debito appariva sostenibile in base alle aspettative di crescita. E la crescita, in base al modello dominante occidentale degli ultimi decenni -soprattutto in Nord America e in Gran Bretagna - era pressoché totalmente affidata al consumo. L’esperimento italiano ha teso verso quel modello, ma non ha più cartucce da sparare.
Oggi i debiti sono tutti da pagare. La generazione dei babyboomers, dei consumatori-massa irresponsabilmente edonisti, riparati dalle certezze previdenziali a lungo capaci di adempiersi ma ora non più, specie quando evaporano in borsa, ebbene, quella generazione non ha più nessun margine. Invecchierà più povera di quanto si aspettasse. E alla generazione che segue decrescono le risorse mentre le certezze previdenziali si azzerano.
È significativo che si torni a un livello di tensioni economiche, finanziarie e politiche ancora fermo al momento che ho tentato di descrivere, quello della fine dei cicli di crescita nei decenni scorsi. La differenza rispetto ad allora è che si è perso tempo, si son consumate nel precariato dequalificante le prospettive di intere generazioni, e nulla ha sostituito il paradigma bloccato della crescita-che-non-potrà-mai-più-tornare. Il processo di ricollocazione della “missione Italia” partirà da questi duri fatti, in grado da soli di sconvolgere i vecchi modi di schierarsi.
Il livello travolgente e inusitato dell’astensione nelle recenti tornate elettorali descrive bene un’offerta politica – quella esistente - incapace di affrontare la crisi e il baratro di impoverimento che si apre. Qualcuno riempirà questo vuoto.
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