Fonte: pino cabras
Altro aggiornamento del superindice Ocse, altro tripudio di pacche sulle spalle ed autocongratulazioni. Siamo fatti così, insuperabili nel dar corpo alle ombre, nel bene e nel male. Dunque, vediamo il dato di settembre: “gli indicatori mostrano chiaramente una crescita in Italia, Francia, Regno Unito e Cina, mentre in Canada e Germania si vedono dei segni di espansione potenziale”. Bene, c’è in atto una ripresa, lo sapevamo da tempo. Quello che molti nostri politici non riescono a cogliere è che un leading indicator esprime una previsione di quello che potrebbe accadere tra sei-nove mesi. Non è assolutamente detto che la previsione si realizzi, ed anzi alcune recenti ricerche segnalano che il grado di correlazione del CLI (Composite Leading Indicator) dell’Ocse con la crescita effettivamente conseguita nei due-tre trimestri successivi si è ridotto, nell’era della globalizzazione.
Ma c’è dell’altro, ed è un caveat metodologico piuttosto serio. Scrive l’Ocse:
«Sebbene i segni di espansione siano evidenti in diversi Paesi, devono essere interpretati con cautela. In effetti il miglioramento atteso dell’attività economica, in rapporto al suo livello potenziale di lungo termine, può essere parzialmente attribuito a un decremento di questo stesso livello potenziale di lungo termine stimato e non soltanto al miglioramento dell’attività economica in sé»
Che tradotto vuol dire: attenzione, perché queste variazioni così vistose del CLI possono derivare dal fatto che ci troviamo in un “nuovo mondo”, dove il potenziale di crescita di lungo periodo si è abbassato. Che, detto in altri termini, suggerisce che ad un boom del CLI può corrispondere, dopo due-tre trimestri, una variazione del Pil piuttosto esigua, e come tale insufficiente a riassorbire la disoccupazione.
Le reazioni politiche di maggioranza al dato sono comprensibili: siamo in una congiuntura mai sperimentata prima, in cui le categorizzazioni a cui eravamo abituati sono venute meno, e dove le correlazioni tra fenomeni si sono in generale indebolite. Si pensi al concetto di benchmark, l’indice di riferimento, nei fondi comuni di investimento. Se in un anno l’indice di borsa perde il 20 per cento ed il mio fondo comune, che su quella borsa investe, perde “solo” il 10 per cento, il gestore verrà a dirmi che “ha battuto il benchmark”, e nella sua ottica è un grande risultato, quasi sempre sufficiente a fargli intascare un robusto bonus. Il risparmiatore viene convinto che, “date le condizioni dei mercati”, possiede un fondo di eccellenza. E’ forse è anche vero ma, come dicono i cinici, “tu non mangi la performance relativa”. Sei comunque più povero che a inizio anno.
A questo concetto corrisponde, nella comunicazione politica di oggi, la nozione di “posti di lavoro salvati”, che appare surreale al senso comune ma serve per rivendicare la giustezza del proprio operato, e che è stata adottata un po’ ovunque, dall’America di Obama alla Francia di Sarkozy. L’obiettivo, dopo un trattamento intensivo fatto di messaggi come questi, è quello di avere un elettorato “confuso e felice”, cioè meno incline al pessimismo, almeno fin quando non viene direttamente colpito da eventi traumatici quali la disoccupazione.
Appuntamento al dato di Pil del primo trimestre 2010, cioè quello maggiormente correlato con la variazione del superindice Ocse di settembre 2009, pubblicata oggi. Ma non trattenete il respiro: sarà una notizia priva di rilievo, un po’ come le smentite date in due righe nelle pagine interne. Difficile che qualcuno dei nostri pensosi editorialisti torni sulla correlazione tra CLI e Pil. E certamente per quell’epoca avremo altri temi su cui dibattere.
Ah, e per quanti preferiscono tenere i piedi per terra, ed al futuribile dei leading indicators preferiscono gli indicatori coincidenti, basati su hard data, ecco il mercato del lavoro americano di ottobre. E non ha per nulla una bella faccia. Ma che c’importa, tanto noi abbiamo “agganciato la ripresa”, come direbbe qualche zelante portavoce.
- Cosa è il CLI e quali sono i suoi attuali limiti previsivi.
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