Intervista a Paolo Leon
Caffè, l'umanista
di Stefano Iucci
L’attualità di un economista senza tempo come Caffè: il suo insegnamento per un’epoca con poche certezze – anche in economia – come la nostra. Su questi temi abbiamo ascoltato Paolo Leon, professore di Economia pubblica all’Università di Roma Tre. A partire da una constatazione: che alcune sue idee – lo Stato come responsabile della piena occupazione, il mercato come creazione umana e, dunque, il dovere da parte della “cosa pubblica” di intervenirvi – suonerebbero come eresie ai social-liberisti di oggi. “Certamente è così – risponde Leon –. Devo però ricordare che Caffè pensava a correggere, non a rovesciare il mondo. A differenza dei riformisti di oggi, non voleva che ci adeguassimo alla filosofia del mercato, che considerava aggressiva ed egoistica. Allo stesso tempo, pensava che le riforme sociali fossero anche quelle che liberavano l’uomo dal bisogno e dalla soggezione. La piena occupazione – e perciò un obiettivo “laburista” – era per lui la miglior garanzia per questa liberazione. Non riteneva, tuttavia, che l’individuo non contasse. Anzi, dava a ciascuno il compito di operare per quella liberazione. Era talmente consapevole che il mercato fosse necessario, ma che dovesse essere continuamente corretto, che considerava superficiali teorie economiche come il monetarismo. Profondamente convinto del pensiero keynesiano, sapeva che la moneta non era un “velo”. In fondo, e proprio perché negli anni settanta prende piede la politica economica monetarista, Caffè fu uno dei primi che capì quanto sconvolgente fosse, per la giustizia sociale, adeguarsi alle regole di Milton Friedman.
Il Mese Che idea aveva Caffè del sindacato?
Leon In genere, per gli economisti di oggi il sindacato è poco meno di una lobby che esercita un indebito potere monopolistico su una merce (la forza lavoro): perciò se il sindacato viene rimosso, il benessere sociale aumenta. Per Caffè non era così: senza sindacato il mercato non retribuirebbe mai il lavoro sulla base della produttività, ma solo sulla base della sussistenza. Domandiamoci, ad esempio, come avrebbe reagito al pacchetto Treu o alla Legge Biagi, con il loro portato di precarietà, ma anche di piena (o massima) occupazione. La sua concezione della giustizia sociale avrebbe apprezzato forse una flessibilità in entrata, ma avrebbe condannato la piena occupazione precaria, anche perché costruita con lo scopo di ridurre il potere sindacale.
Il Mese Si parla spesso a proposito di Caffè di un economista umanista. Non è un modo per ridurre la portata del suo pensiero economico?
Leon No. Anche Keynes era un appassionato d’arte e riteneva che non si trattasse di semplice produzione di merce per il godimento personale. L’idea che la cultura sia un gioco per ricchi appartiene a molti economisti. Invece, Caffè faceva parte della scuola di public finance, non di quella di public choice: e solo la prima considera che esistono beni collettivi (comunitari) che il mercato non salvaguarderebbe.
Il Mese Di recente lei ha insistito sull’importanza del concetto di equità nel pensiero di Caffè, sottolineandone le differenze con le politiche del centro-sinistra che è oggi al governo. In cosa consiste nello specifico questa distanza?
Leon Egli fu tra i primi che capì l’innovazione di Beveridge e la politica dello Stato sociale universale dei laburisti di Attlee, nell’immediato dopoguerra. Non è un caso che un liberale ispiri un laburista. La cosa interessante è che, da questa interconnessione, non nasce il liberalsocialismo, che ha una base economica tradizionale e non deriva in alcun modo dal pensiero keynesiano. Nasce, invece, il nuovo socialismo (Dahrendorf non ha mai capito questo lato del secolo socialdemocratico), per il quale lo Stato sociale non ha natura redistributiva, non è creato per dare una mano ai poveri, ma è la struttura che rende effettiva la democrazia. Lo Stato sociale universale libera l’uomo dal ricatto del bisogno e lo aiuta a realizzare la propria personalità: salute, istruzione, reddito per gli anziani e i disoccupati sono le basi di questa liberazione. Non si tratta di beneficenza pubblica, sostituto laico della carità religiosa. Non è la rappresentazione di uno Stato etico – come il fascismo e il nazismo, che pure praticano lo Stato sociale – ma la trasformazione di una concessione dal potente al debole in un diritto del debole. Questa impostazione rende obbligatoria l’imposta progressiva: ché se il ricco dovesse pagarsi la salute, non si vede perché dovrebbe anche pagare un’imposta progressiva. Ora, il centrosinistra ha da tempo perduto la chiarezza di questa impostazione, e si arrabatta a far pagare un “contributo” ai pazienti, agli anziani (la pensione complementare) e, in forme diverse, anche ai disoccupati (il workfare), mettendo così a rischio la sua legittimità a governare. Caffè aveva quella concezione dello Stato sociale, non questa.
(www.rassegna.it, Il Mese, 16 maggio 2007)
martedì 7 luglio 2009
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