IL COMMENTO
Il potere degli emergenti
di FEDERICO RAMPINI, La Repubblica, 10 luglio 2009
Archiviato il primo giorno di summit nel formato ormai obsoleto del G8, l'allargamento della seconda giornata alle cinque potenze emergenti (Cina India Brasile Messico e Sudafrica) ha rivelato la forza tremenda del "fronte dei veti". Gli emergenti hanno una visione del mondo lontana dalla nostra. Hanno altre priorità. Hanno il peso economico e politico per esercitare un formidabile potere d'interdizione.
E' questo il vero senso della giornata di ieri. La coalizione degli esterni al G8 non è più "la periferia". Al contrario, Cina e India rappresentano potenzialmente i motori della crescita mondiale, gli unici giganti ad essersi sganciati dal ciclo recessivo. Ma allargare la rappresentanza della governance globale fino a includerli, espone al rischio della paralisi decisionale: tanto ampio è il divario degli interessi.
"E' un buon inizio, non è un compito da poco riuscire a colmare le distanze fra così tanti leader, ed è ancora più difficile riuscirci nel bel mezzo di una recessione". Con il suo energico ottimismo Obama ha voluto imprimere un segno positivo al vertice. Quel suo giudizio si riferiva all'accordo sul clima, firmato da paesi che generano l'80% delle emissioni carboniche del pianeta. Ma poco prima la delegazione cinese aveva suonato tutt'altra musica: "L'accordo sul clima non vincola la Cina, che ritiene fondamentale prendere in considerazione le diverse condizioni dei paesi emergenti". Dall'India all'Egitto, altri hanno appoggiato la posizione cinese, respingendo l'impegno di ridurre del 50% le emissioni di CO2 entro il 2050. La controproposta: che i paesi industrializzati si impegnino a fare molto di più, tagliando del 40% le loro emissioni entro il 2020; e che offrano fondi e tecnologie ai paesi meno avanzati per la riconversione a uno sviluppo sostenibile.
Pechino articola una posizione che fa il pieno di consensi in tutto il mondo non-occidentale. Primo: la Cina ci ricorda che storicamente l'inquinamento accumulato nel pianeta lo abbiamo prodotto in massima parte noi "vecchi ricchi" nei decenni in cui eravamo i soli protagonisti dell'industrializzazione. Secondo: le nostre multinazionali hanno un ruolo decisivo nel trasferire verso le nazioni emergenti le produzioni più distruttive per l'ambiente. Terzo: il tenore di vita dei cinesi e degli indiani resta molto inferiore al nostro, in fatto di consumo frugale noi dovremmo imparare qualcosa da loro. Conclusione: non si può chiedere ai colossi asiatici di fermare le centrali a carbone solo perché loro sono troppo numerosi. Questa non è una divergenza "negoziabile" su cifre e date; è lo scontro tra visioni, interessi e bisogni profondamente diversi.
Per la stragrande maggioranza dell'umanità lo sviluppo resta la priorità, l'urgenza, l'imperativo assoluto. Riuscire a cambiare la qualità di quello sviluppo, esige soluzioni profondamente innovative che fuoriescono dall'arcaica cultura negoziale delle diplomazie e degli sherpa. "Tra vecchi paesi ricchi e nazioni emergenti - osserva Kim Carstensen del Wwf - non è stato superato il grande fossato della diffidenza".
D'altra parte quando il fronte degli emergenti sprigiona la sua grande forza d'interdizione, mette a nudo anche i limiti di audacia dei leader occidentali. A parte l'aver ripudiato finalmente il "negazionismo" di Bush sul cambiamento climatico, di concreto sull'ambiente Obama cos'ha fatto? Sta spingendo faticosamente al Congresso una legge sul trading di diritti d'emissione, copiata dal modello europeo che ha dato risultati deludenti. Non ha neppure messo all'ordine del giorno un aumento delle tasse sulla benzina, che al distributore in America costa meno che in Cina.
Non è solo sul clima che l'apparente concordia è stata ottenuta solo annacquando all'infinito i contenuti. G8 più G5 si sono "impegnati a resistere al protezionismo e a incoraggiare l'apertura dei mercati", promettono una "conclusione ambiziosa ed equilibrata dei negoziati sulla liberalizzazione dei commerci" (Doha Round) nel 2010. Ma non c'è alcun cenno alla grande disputa sul protezionismo agricolo europeo e americano, immenso ostacolo all'accordo di Doha. Neanche una parola sulle malefiche clausole protezioniste infilate surrettiziamente in tutte le manovre di spesa pubblica anti-recessione, dal Buy American di Washington al Buy Chinese di Pechino. (L'Italia, piccola economia molto dipendente dall'export, ha tutto da perdere se avanza indisturbata questa marea neoprotezionista).
La vacua convergenza sul rilancio della crescita globale è stata raggiunta solo dopo aver messo fra parentesi un'altra sfida poderosa lanciata dai cinesi: l'attacco a sua maestà il dollaro. Chiedendo di "promuovere un sistema monetario internazionale più diversificato", la delegazione di Pechino ha comunque sancito l'inizio di un processo inevitabile. Il signoraggio del dollaro, che primeggia sia nelle riserve delle banche centrali sia nei pagamenti dei commerci fra nazioni, è l'eredità di un'epoca in cui la supremazia economica americana era incontrastata. Ora la Cina moltiplica gli accordi bilaterali con India, Russia, Brasile, Argentina; in quel club già si abbandona il dollaro per passare a pagamenti bilaterali con le valute nazionali. E' naturale che questo avvenga. Basti pensare che la Cina ha sostituito gli Stati Uniti come primo partner economico del Brasile: perché gli imprenditori di Shanghai e Sao Paulo dovrebbero continuare a usare dollari nelle loro relazioni, esponendosi alla capricciosa volatilità di una moneta che riflette le debolezze del bilancio federale di Washington? Il tramonto del vecchio ordine è nei fatti. Ma quello che si disegna nel post-G8 è un mondo assai più complicato, e non necessariamente più stabile.
E' questo il vero senso della giornata di ieri. La coalizione degli esterni al G8 non è più "la periferia". Al contrario, Cina e India rappresentano potenzialmente i motori della crescita mondiale, gli unici giganti ad essersi sganciati dal ciclo recessivo. Ma allargare la rappresentanza della governance globale fino a includerli, espone al rischio della paralisi decisionale: tanto ampio è il divario degli interessi.
"E' un buon inizio, non è un compito da poco riuscire a colmare le distanze fra così tanti leader, ed è ancora più difficile riuscirci nel bel mezzo di una recessione". Con il suo energico ottimismo Obama ha voluto imprimere un segno positivo al vertice. Quel suo giudizio si riferiva all'accordo sul clima, firmato da paesi che generano l'80% delle emissioni carboniche del pianeta. Ma poco prima la delegazione cinese aveva suonato tutt'altra musica: "L'accordo sul clima non vincola la Cina, che ritiene fondamentale prendere in considerazione le diverse condizioni dei paesi emergenti". Dall'India all'Egitto, altri hanno appoggiato la posizione cinese, respingendo l'impegno di ridurre del 50% le emissioni di CO2 entro il 2050. La controproposta: che i paesi industrializzati si impegnino a fare molto di più, tagliando del 40% le loro emissioni entro il 2020; e che offrano fondi e tecnologie ai paesi meno avanzati per la riconversione a uno sviluppo sostenibile.
Pechino articola una posizione che fa il pieno di consensi in tutto il mondo non-occidentale. Primo: la Cina ci ricorda che storicamente l'inquinamento accumulato nel pianeta lo abbiamo prodotto in massima parte noi "vecchi ricchi" nei decenni in cui eravamo i soli protagonisti dell'industrializzazione. Secondo: le nostre multinazionali hanno un ruolo decisivo nel trasferire verso le nazioni emergenti le produzioni più distruttive per l'ambiente. Terzo: il tenore di vita dei cinesi e degli indiani resta molto inferiore al nostro, in fatto di consumo frugale noi dovremmo imparare qualcosa da loro. Conclusione: non si può chiedere ai colossi asiatici di fermare le centrali a carbone solo perché loro sono troppo numerosi. Questa non è una divergenza "negoziabile" su cifre e date; è lo scontro tra visioni, interessi e bisogni profondamente diversi.
Per la stragrande maggioranza dell'umanità lo sviluppo resta la priorità, l'urgenza, l'imperativo assoluto. Riuscire a cambiare la qualità di quello sviluppo, esige soluzioni profondamente innovative che fuoriescono dall'arcaica cultura negoziale delle diplomazie e degli sherpa. "Tra vecchi paesi ricchi e nazioni emergenti - osserva Kim Carstensen del Wwf - non è stato superato il grande fossato della diffidenza".
D'altra parte quando il fronte degli emergenti sprigiona la sua grande forza d'interdizione, mette a nudo anche i limiti di audacia dei leader occidentali. A parte l'aver ripudiato finalmente il "negazionismo" di Bush sul cambiamento climatico, di concreto sull'ambiente Obama cos'ha fatto? Sta spingendo faticosamente al Congresso una legge sul trading di diritti d'emissione, copiata dal modello europeo che ha dato risultati deludenti. Non ha neppure messo all'ordine del giorno un aumento delle tasse sulla benzina, che al distributore in America costa meno che in Cina.
Non è solo sul clima che l'apparente concordia è stata ottenuta solo annacquando all'infinito i contenuti. G8 più G5 si sono "impegnati a resistere al protezionismo e a incoraggiare l'apertura dei mercati", promettono una "conclusione ambiziosa ed equilibrata dei negoziati sulla liberalizzazione dei commerci" (Doha Round) nel 2010. Ma non c'è alcun cenno alla grande disputa sul protezionismo agricolo europeo e americano, immenso ostacolo all'accordo di Doha. Neanche una parola sulle malefiche clausole protezioniste infilate surrettiziamente in tutte le manovre di spesa pubblica anti-recessione, dal Buy American di Washington al Buy Chinese di Pechino. (L'Italia, piccola economia molto dipendente dall'export, ha tutto da perdere se avanza indisturbata questa marea neoprotezionista).
La vacua convergenza sul rilancio della crescita globale è stata raggiunta solo dopo aver messo fra parentesi un'altra sfida poderosa lanciata dai cinesi: l'attacco a sua maestà il dollaro. Chiedendo di "promuovere un sistema monetario internazionale più diversificato", la delegazione di Pechino ha comunque sancito l'inizio di un processo inevitabile. Il signoraggio del dollaro, che primeggia sia nelle riserve delle banche centrali sia nei pagamenti dei commerci fra nazioni, è l'eredità di un'epoca in cui la supremazia economica americana era incontrastata. Ora la Cina moltiplica gli accordi bilaterali con India, Russia, Brasile, Argentina; in quel club già si abbandona il dollaro per passare a pagamenti bilaterali con le valute nazionali. E' naturale che questo avvenga. Basti pensare che la Cina ha sostituito gli Stati Uniti come primo partner economico del Brasile: perché gli imprenditori di Shanghai e Sao Paulo dovrebbero continuare a usare dollari nelle loro relazioni, esponendosi alla capricciosa volatilità di una moneta che riflette le debolezze del bilancio federale di Washington? Il tramonto del vecchio ordine è nei fatti. Ma quello che si disegna nel post-G8 è un mondo assai più complicato, e non necessariamente più stabile.
Wahington non si è ancora accorta che, dopo essere stata usata come poliziotto dai banchieri internazionali (un vero e proprio USA e getta!), il suo ruolo non ha più molto senso nell'epoca del Grande Banchiere dell'Universo...
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