Le banche giocano con l’ingegneria finanziaria |
Martedì 5 Maggio 2009 – 5:46 – Filippo Ghira, Rinascita
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Le banche italiane, avendo studiato alla grande scuola di Mediobanca, sono molto interessate al meccanismo dell’ingegneria finanziaria. Quello che permette di effettuare operazioni finanziarie ed allungare le mani sulle società senza disporre dell’ombra di un quattrino o (ma il quadro cambia poco) mettendo sul tavolo due euro o le due lire del passato. Il meccanismo finì agli onori delle cronache per demerito del non compianto Enrico Cuccia che per quaranta anni e passa fu il padre padrone di Mediobanca, una banca a capitale pubblico che fu utilizzata dallo stesso per fare gli interessi dei grandi capitalisti del Nord, Agnelli e Pirelli in testa, e per permettergli di mantenere ben saldo il controllo sulle proprie aziende. Un meccanismo che prevede fra l’altro la possibilità di utilizzare in modo piuttosto disinvolto le passività e le attività di bilancio, quelle proprie, e quelle delle società partecipate, per risultare e apparire in utile o in perdita, sia dal punto civilistico che fiscale, e non dovere di conseguenza provvedere ad un aumento di capitale che in quel determinato momento potrebbe comportare la perdita del controllo della società da parte di uno specifico gruppo di azionisti. Del resto, perché stupirsi? Le leggi, più o meno tutte le leggi, sono funzionali agli interessi di qualcuno e dannose per quelli di altri.
In ogni caso il meccanismo in questione, in tutte le sue sfaccettature, deve risultare particolarmente vantaggioso e funzionale se vi ricorrono anche le banche. In questi ultimi tempi esso può rivelarsi indispensabile per sanare, almeno sulla carta, una situazione patrimoniale che si è fatta insostenibile a causa del coinvolgimento di diversi istituti di credito italiani in investimenti all’estero (in particolare nell’Est europeo) che, al primo soffiare dei venti di crisi, si sono rivelati quanto mai deboli e basati sul nulla. In altre parole si tratta di investimenti in titoli di banche e società finanziarie dal dubbio rientro nelle casse italiane e il cui valore patrimoniale reale è ormai ben al di sotto del costo storico, cioè dei soldi scuciti per comprarli. Che fare dunque? Come compensare con una trovata d’ingegno le perdite che bisognerà iscrivere in bilancio? Pensa che ti ripensa alle maggiori banche italiane è venuta la brillante idea di rivalutare la quota posseduta nel capitale della Banca d’Italia. Per esempio Intesa-San Paolo, il primo azionista di Via Nazionale, vanta una quota pari al 42,6% alla quale gli analisti della banca hanno attribuito un valore di 7,4 miliardi di euro. Il presidente della banca padana, Giovanni Bazoli, ha ventilato la possibilità di vendere la quota di Bankitalia per fare cassa ed accrescere la propria forza patrimoniale ed ovviamente finanziaria. Resta però da vedere chi è o chi potrebbe essere l’eventuale acquirente, perché cedere una quota così rilevante della banca centrale non è lo stesso che vendere le azioni della società A o della banca B.
Quando le banche erano pubbliche…
E qui è necessario e doveroso fare un po’ di storia. Prima dell’avvio del processo di privatizzazione delle banche pubbliche italiane, nel 1990, il controllo su Via Nazionale, almeno formalmente, era esercitato dallo Stato. I principali azionisti di Via Nazionale erano infatti le tre banche d’interesse nazionale controllate dall’IRI e quindi dal Tesoro (Banca Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma) e i sei istituti di credito di diritto pubblico (Banco di Sicilia, Banco di Sardegna, Banco di Napoli, Banca Nazionale del Lavoro, Istituto San Paolo di Torino e Monte dei Paschi di Siena). Anche queste controllate dal Tesoro. A queste si aggiungevano banche più piccole e altri azionisti “storici” come le Assicurazioni Generali, l’Inps e la Fiat. Lo Stato e quindi il governo, attraverso il Tesoro, era il primo azionista di Via Nazionale e come tale aveva il potere di indicarne i vertici agli azionisti (pubblici) che provvedevano poi alla nomina formale. In realtà poi, in conseguenza di accordi e di regole non scritte e del mantenimento di equilibri tra la finanza “cattolica” e quella “laica”, sia a livello nazionale che internazionale, la scelta cadeva sempre su una personalità gradita a quest’ultima. La situazione cambiò quando si iniziò a far passare le banche dalla proprietà pubblica a quella privata.
In quel periodo che sancì il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica pochi si posero il problema su quale dovesse essere la sorte delle quote azionarie possedute in Via Nazionale. Mentre quelli che potevano e dovevano aprire bocca, i ministri del Tesoro dei governi di transizione del quinquennio 1990-1994, preferirono tacere e restare colpevolmente alla finestra. Finì così per realizzarsi un autentico scippo. Le azioni della Banca d’Italia, di fatto e di diritto un’istituzione pubblica creata con il preciso fine di difendere l’interesse nazionale, quindi l’interesse di tutti, vennero infatti trasferite a società bancarie private, portate quindi a fare gli interessi dei propri azionisti privati. Un cambiamento non da poco e che accomuna l’Italia, guarda caso, alla realtà statunitense dove sono le banche private ad essere gli azionisti della Federal Reserve, l’unico soggetto autorizzato ad stampare ed emettere moneta e che fu messo in condizione di farlo grazie ad un autentico colpo di mano realizzato all’inizio del secolo scorso. E’ appena il caso di ricordare che il disegno di legge Tremonti sul risparmio, che di fatto dimissionò l’ex governatore Antonio Fazio, prevedeva tra l’altro che entro il gennaio del 2009 le quote delle banche in Via Nazionale tornassero di proprietà del Tesoro o altri enti pubblici ad un prezzo di vendita stabilito dallo stesso Ministero. E se le banche ne volevano almeno 14, Tremonti pensava ad una cifra sui 4 miliardi di euro circa. Una bella differenza…Poi le croniche difficoltà di cassa dello Stato hanno fatto slittare tale ipotesi che ha finito per perdere di attualità ed è stata quindi accantonata. Quando la soluzione più giusta sarebbe stata il semplice trasferimento o meglio il ritorno delle quote azionarie già di proprietà delle banche ex pubbliche al soggetto pubblico, cioè allo Stato. Un’operazione da realizzare a costo zero visto che le suddette banche privatizzate hanno ottenuto gratis, con un semplice giro contabile, la partecipazione pubblica in Banca d’Italia.
Difendere la sovranità monetaria
Appare così sconcertante che di propria iniziativa e in base ad una propria valutazione le banche private possano pensare di disfarsi della quota azionaria in Via Nazionale per la quale la Legge aveva già disposto diversamente. Pensiamo solo a cosa succederebbe se quella quota venisse venduta ad una banca estera quando già adesso la quota della BNL, pari al 2,8%, è di fatto controllata dalla banca capogruppo, la francese Banca nazionale di Parigi. Il problema centrale resta così sempre il solito e cioè a chi spetti la proprietà della moneta che viene stampata e messa in circolazione. A nostro avviso la risposta è ovvia. La moneta, come dice la stessa parola, è e deve rimanere un mezzo di misura della ricchezza nazionale e dei beni che la compongono. E quindi la sovranità su di essa appartiene al popolo. E a nessun privato deve essere permesso e consentito di trasformarla in un bene a se stante o di trarne addirittura degli utili dopo averla moltiplicata a proprio piacimento. Questo è invece quanto succede abitualmente oggi con le Banche centrali trasformate in organismi auto referenziali e dotate di poteri tali da risultare più potenti degli stessi governi nazionali. Entrambi anzi, come successo in Europa, hanno finito per cedere la propria sovranità monetaria ad un organismo come la Banca centrale europea ed ora si preparano a fare un passo ulteriore e dare vita nei prossimi anni ad un organismo planetario unico dotato di una moneta unica. Il sogno di tutti i tecnocrati…
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