venerdì 11 settembre 2009

La sinistra finanziaria italiana: un ceto floscio

La sinistra che non c’è
IL “COMPAGNO TREMONTI” E LA “SINISTRA FINANZIARIA”
Vent’anni di politica di destra del centrosinistra, a favore delle privatizzazioni e del grande capitale finanziario

di Claudio Moffa

Le nuove tendenze sociali e economiche insorte dopo la svolta dei primi anni Novanta – privatizzazioni, lavoro precario, pensioni, effetti dell’euro – e la “finanziarizzazione” dell’economia (rapporto 10 a 1 col capitale produttivo alla svolta del secolo) con tutte le sue conseguenze sul mondo della produzione, lavoratori dipendenti compresi: sono questi i due momenti chiave su cui misurare la politica del centrosinistra, per cercare di capire cosa ancora nell’odierna opposizione sopravvive del suo essere “di sinistra”.
Iniziamo con la seconda questione, non solo perché probabilmente è la radice ultima della prima, ma anche per essere stata riportata alla luce dagli ultimi due interventi di Tremonti. Il primo è quello alla festa di Comunione e Liberazione di Rimini di fine agosto. Un discorso eccezionale e coraggioso, quello del ministro dell’economia, interprete di una diffusa tradizione della “destra sociale”: sia per quel riferimento alla compartecipazione dei lavoratori agli utili aziendali – che comunque simboleggia il nodo strategico della possibile alleanza fra ceti produttivi: per inciso, tema-slogan già caro, sia pure con altre configurazioni, al vecchio PCI di Togliatti – sia per il giudizio netto sulla differenza fra la politica di Roosevelt post-29 – un debito pubblico, ha detto Tremonti, per dar soldi e lavoro al popolo 1- e quella dei loro falsi imitatori odierni: un debito pubblico per sanare e ingrassare le banche, le principali responsabili della crisi planetaria odierna. Una verità, ha aggiunto il ministro, che ''non ve la raccontano i banchieri, quelli che frequentano il sinedrio'' .
Solo belle parole? Non si direbbe: non solo perché altre parole di Tremonti, quelle al G8 de L’Aquila sul “colpo di manovella”, hanno avuto un seguito concreto, cioè a dire la violazione di una parte almeno dei “segreti bancari” dei paradisi fiscali Svizzera compresa, ma anche perché anche nelle sue ultime esternazioni al G20 del 6 settembre – dunque non in un incontro culturale, ma in una sede intergovernativa dotata di potenziale decisionalità politica – il ministro dell’economia del centrodestra è tornato ad attaccare le banche, accusate sia di fare poco per la fuoriuscita dalla crisi nonostante i grandi benefici di cui hanno goduto, sia di pretendere di comandare sui Governi e sulla Politica. Parole forti, tanto da suscitare critiche nel’area governativa, almeno a giudicare dagli articoli di Forte e Pomicino su il Giornale del 7 e 8 settembre: perché il centrosinistra le ignora, perché non rilancia la sfida invocandone il passaggio ai fatti e incalzando così il governo?
Parlate dell’esempio Roosevelt? E allora perché non operate di conseguenza?
Perché l’opposizione non incalza costruttivamente il governo su questo terreno cruciale per la giustizia sociale e il benessere dei cittadini a reddito fisso?
La risposta à per me abbastanza semplice: non solo perché in questi tempi di scontro frontale eterodiretto la leadership del centro sinistra non vuole dare spazio ad critiche costruttive, ma anche perché il capitale finanziario e tutto quel che ruota attorno ad esso è tradizionalmente al di fuori delle competenze intellettive e dei programmi della sinistra: resta una zona d’ombra, un tema “di destra”, un argomento tabù, tale o per convenienza “tattica” – in Italia ad esempio i legami col carro mediatico di De Benedetti, la tessera numero 1 del PD - o, e questo vale soprattutto per i “rivoluzionari”, per una radicata tradizione marxista che si pretende ortodossa e per la quale il capitale finanziario sarebbe (udite udite!) un capitale assolutamente marginale e subalterno rispetto a quello “vero”, che è quello industriale, perché solo nel “processo produttivo” l “astratto” e “inesistente” 2 capitale-gruzzolo si “invera” e diventa tale sfruttando il pluslavoro operaio. Come si legge ne Il Capitale: “il capitale esiste come capitale, nel movimento reale, non nel processo di circolazione ma soltanto nel processo di produzione, nel processo di sfruttamento della forza-lavoro”.
Come dire, George Soros, i grandi finanzieri come lui e le grandi banche non sono veri capitalisti, nei quali individuare una contraddizione se non “principale” comunque forte con la classe dei salariati: la vera e unica controparte del “proletariato” - cioè a dire delle forze produttive che, entrando in conflitto con i rapporti di produzione, aprono la strada alla “rivoluzione” - sono i capitalisti industriali.

Il Marx astratto de Il Capitale

E’ così? Oso dire, facendo sponda difensiva su Franz Mehring per il quale “il Capitale non è una Bibbia contenente verità immutabili”, che da una parte questa tesi pecca di astrattezza, e dall’altra che in Marx si ritrovano altre sensibilità e altri approcci alla “sfera della circolazione”, fondate non su quel “metodo logico-deduttivo” che secondo Bohm-Bawerk lo avrebbe guidato nella stesura de Il Capitale – opera forse non a caso non conclusa da Marx ma da Fredrich Engels, e solo nel 1894 - ma su una lettura “empirica”, tipica di un approccio sociologico-giornalistico. Meno coerente dal punto filosofico-astratto ma più aderente alla realtà. Cioè più scientifica.
Cominciamo dal primo punto. La breve citazione di Marx prima riportata ha delle conseguenze paradossali per quel che riguarda la capacità di incidenza e la funzione storica effettive dei capitalisti mercantili, bancari e finanziari: infatti, poiché dogma vuole che il capitale “vero” sia solo quello produttivo, che cioè il plusvalore abbia una origine solo nella sfera della produzione, ecco che il commerciante – anche il grande commerciante - è una sorta di salariato del capitalista industriale, un suo “commesso” (sic 3) incaricato semplicemente di completare e riavviare il cerchio del ciclo produttivo con la vendita della merce e il suo pagamento al produttore 4.
Ed ecco che anche banchieri e finanzieri – “il capitale per il commercio di denaro” – assumono una funzione solo “tecnica”, completamente subalterna a quella del capitale industriale sia dal punto di vista economico sia da quello storico. Nella quarta sezione del III Libro de Il Capitale, Marx descrive il “capitale per il commercio di denaro” come mera “parte del capitale industriale” che da questo “si stacca” per eseguire “operazioni monetarie per tutta la classe dei capitalisti industriali”: il capitale finanziario è cioè solo “capitale industriale ... che esce dal processo di produzione”: esso perciò “rappresenta un costo di circolazione, ma non crea valore” ed è manovrato da una “categoria speciale di agenti o di capitalisti” che agisce “per tutta la classe di capitalisti”. Nessuna autonomia vera, dunque, nell’imposizione dei tassi bancari e usurari, perché essi sono “incapaci” di profitto autodeterminato e solo partecipano in modo subalterno a quello estorto dai capitalisti industriali ai lavoratori. Il capitale finanziario non è un possibile concorrente e avversario di quello produttivo industriale come alcune volte appare nella realtà storica (vedi la dialettica forte oggi fra imprese e banche), ma una sua articolazione interna, tanto che i suoi protagonisti vengono ridotti ne Il Capitale se non proprio a commessi (come nel caso del capitale mercantile), comunque a suoi “agenti”. Il passaggio cruciale sta nel citato “costo di circolazione” (una banca in effetti ha i suoi costi) ma esso meriterebbe una definizione più precisa: quale “costo”? Quale interesse sul denaro? Chi lo determina? Perché se banchieri e finanzieri sono “agenti” del capitalista industriale questi è talvolta se non spesso in conflitto con essi, quando chiede prestiti per salvare o migliorare la sua azienda?

Il Marx giovane e sociologo-giornalista de Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850

Si dirà: ma forse l’epoca di Marx era diversa, la rivoluzione industriale avviata già alla fine del XVIII secolo aveva mutato radicalmente i rapporti fra il vecchio capitale mercantile e appunto quello, in crescita esponenziale, dell’industria. E’ proprio così? La marginalizzazione del capitale bancario e finanziario era assolutamente tale ed evidente nell’Ottocento, almeno fino alla morte dell’autore de il Capitale, nel 1883?
Eccoci dunque al secondo corno del problema: in verità, contro il Marx dogmatico de Il Capitale (fino all’incompiutezza dell’opera, “rattoppata” qui e là dal buon Engels) emerge dalla sua vastissima produzione un Marx diverso, giovane, lettore acuto e “immediato” (senza pretese cioè da filosofo della storia) della realtà che lo circondava. Come quello che descrive, una ventina di anni prima della stesura del primo libro della principale opera marxiana (1867), “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1950”:
“Dopo la rivoluzione di luglio il banchiere liberale Laffitte, accompagnando il suo compare, il duca di Orléans, in trionfo all'Hôtel de Ville, lasciava cadere queste parole: "D'ora innanzi regneranno i banchieri". Laffitte aveva tradito il segreto della rivoluzione.
Sotto Luigi Filippo non era la borghesia francese che regnava, ma una frazione di essa: banchieri, re della Borsa, re delle ferrovie, proprietari di foreste, e una parte della proprietà fondiaria rappattumata con essi; insomma la cosiddetta aristocrazia della finanza. Era essa che sedeva sul trono, che dettava leggi nelle Camere, che dispensava i posti governativi, dal ministero fino allo spaccio di tabacchi. La borghesia veramente industrial formava una oparte dell’opposizione ufficiale ...
....Mentre l’aristocrazia finanziaria dettava le leggi, guidava l’amministrazione dello Stato, disponeva di tutti i pubblici poteri organizzati, dominava la pubblica opinione coi fatti e con la stampa, andava ripetendosi in ogni sfera, dalla Corte al Café-Borgne, l’identica prostituzione, l’identica frode svergognata, l’identica libidine di arricchire non mediante la produzione, ma mediante la rapina dell’altrui ricchezza già creata ...
La borghesia industriale vide in pericolo i propri interessi; la piccola borghesia trovavasi urtata nella sua morale, la fantasia popolare si rivoltava. Parigi era inondata di libelli – La Dynastie Rothschild ... Les juifs, rois de l’èpoque – nei quali il dominio dell’aristocrazia finanziaria, veniva, con maggiore o minor spirito, denunciato e stigmatizzato” 5
Andiamo dritti alle questioni che suscita questo scritto di Marx, antologia di articoli per la Neue Rheinische Zeitung:
Prima questione, il paradigma marxiano è qui rovesciato rispetto a quello de Il Capitale: ne Il Capitale la contraddizione principale è fra classe operaia e capitalisti industriali, e anzi Marx, come più tardi Hilferding – diversamente da un altro classico della saggistica sull’Imperialismo, Hobson - teorizza in qualche pagina della sua principale opera, una funzione addirittura anticapitalista del capitale finanziario, potenziale artefice della “soppressione del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico ... una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come un semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione” 6.
Dunque l’ “aristocrazia finanziaria” poteva diventare compagna di strada del progetto rivoluzionario, così come oggi il popperiano George Soros sarebbe il levatore mondiale della rivoluzione: invero non più rossa e proletaria, ma piuttosto globalcapitalista e arancione o verde. “Rivoluzioni” che non a caso attraggono molto i tragici residui “marxisti” del postbipolarismo in Italia e in Occidente.
Al contrario, nelle Lotte di classe ... emerge un Marx giovane, che non gioca ancora in Borsa come più tardi a Londra: un intellettuale ribelle alla sua tribus di appartenenza (si ricordi la Questione ebraica del 1843), e che – sia pure nella fugace brevità di una cronaca della rivoluzione – vede un’alleanza di fatto fra classi produttrici, operai e industriali, contro la rapace e sanguisuga aristocrazia della finanza franco-cosmopolita con il suo regime autoritario e la sua stampa falsamente “libera” e ingannevole. Questa era la lettura della rivoluzione del 1848 di Marx. Un Marx che faceva del capitale finanziario il protagonista della Politica e della Storia della Francia di Filippo II, e che per questa sua lettura ricorda quel che avrebbe scritto nel 1902 John Atkinson Hobson in uno scritto – Imperialism: a Study – che, nonostante la matrice culturale diversa del suo autore, fa parte anch’esso della tradizione di pensiero marxista:
“Questi grandi interessi finanziari ... formano il nucleo centrale del capitalismo internazionale. Uniti dai più forti legami organizzativi, sempre nel più stretto contatto l’uno con l’altro e pronti a ogni rapida consultazione, situati nel cuore della capitale economica di ogni Stato, controllati, per quel che riguarda l’Europa, principalmente da uomini di una razza particolare, uomini che hanno dietro di se molti secoli di esperienza finanziaria ... Ogni grande atto politico che implica un nuovo flusso di capitali, o una grande fluttuazione nei valori degli investimenti esistenti deve ricevere il benestare e l’aiuto concreto di questo piccolo gruppo di re della finanza ... Creare nuovi debiti pubblici, lanciare nuove società, provocare costantemente notevoli fluttuazioni del valore dei titoli sono tre condizioni necessarie per svolgere la loro profittevole attività.
Ciascuna di queste condizioni li spinge verso la politica, e li getta dalla parte dell’imperialismo ... Non c’è guerra, rivoluzione, assassinio anarchico, o qualsiasi altro fatto che impressiona l’opinione pubblica, che non sia utile per questi uomini; sono arpie che succhiano i loro guadagni da ogni nuova spesa forzosa e da ogni improvviso disturbo del credito pubblico” 7
Di queste riflessioni però, nell’area “marxista” postbipolare rimane pressoché nulla. I “marxisti” di oggi pensano solo ad aiutare Repubblica a rovesciare con un colpo di stato mediatico-giudiziario Berlusconi, una sorta di Tangentopoli bis in soccorso dei “compagni” banchieri e finanzieri. Non è fenomeno di oggi: quando fu fondata Liberazione caporedattore fu nominato Francesco Fargione il quale sul neo-quotidiano del PRC, un giorno sì e l’altro pure, sparava a zero contro Andreotti e inneggiava a Di Pietro, a sua volta lanciato da Repubblica come il salvatore della patria. Riflettere e far riflettere perciò su Tangentopoli – su Craxi in Tunisia e Andreotti sotto processo per motivi essenzialmente politici: Sigonella - era impossibile: ci sarebbero voluti dirigenti capaci di sganciarsi dal ricatto dei rubli dell’URSS al PCI, per cercare di fare delle pur solo accennate riflessioni di Libertini su Tangentopoli, appunto, la linea del Partito: un fatto, i rubli al principale partito comunista dell’Occidente, di una banalità e normalità sconvolgente, come i dollari della CIA alla DC ammessi da Cossiga.
Ma torniamo alla questione del capitale finanziario: nel 1996 scrissi un intervento su L’Ernesto uno dei cui paragrafi, dedicato appunto a questo problema (avevo un paio di anni prima partecipato a un convegno all’Università di Teramo, in occasione del centenario del III Libro: 1994, con una relazione su “Il III Libro alla verifica empirica della storia” 8) proponeva la questione oggi cruciale degli statarelli e dei paradisi fiscali: “Chi mai oserà violare le “indipendenze” delle Bahamas e del Liechtenstein, per difendere il potere d’acquisto dei redditi fissi di operai e impiegati?” 9. Ora la risposta ce l’ho: non certo i rifondaroli e la loro variegata diaspora post 1998 ma semmai – se la ricognizione dei “paradisi fiscali” dovesse diventare una costante, e se tutte le parole dette si trasformeranno in fatti – Tremonti e ... il G8-G20, che hanno posto il problema di regole da imporre alla globalizzazione finanziaria, e del necessario primato dei Governi – cioè della Politica – sulle Banche e sul capitale finanziario transnazionale. Senza il quale i fondamenti della democrazia, cioè del governo del popolo, sono minacciati in tutto il mondo.
E’ vero, dietro tutto questo potrebbero esserci solo esigenze di imbellettamento dei “potenti” della Terra di fronte agli effetti della crisi economica mondiale. Ma potrebbe esserci anche dell’altro: ad esempio l’esperienza diffusa di una Politica che ha perso ogni autonomia a fronte del ricatto dei sempre più potenti mass media, i quali eccezioni a parte, e in particolare nella loro versione “progressista”, sono un articolazione fondamentale del potere del capitale finanziario; e ci potrebbe essere, in tempi recentissimi, la colossale truffa di Madoff ai danni del mondo intero correligionari compresi. Dove è finito il malloppo? Chi utilizzerà quella enorme montagna di denaro, e per quali scopi, per quali fini politici? James Petras ha ipotizzato una interpretazione iperbuonista per la megatruffa, uno retroscenario “antifalchi” israeliani, se non direttamente filo palestinese 10. Ipotesi contro ipotesi, in attesa di eventuali ma probabilmente impossibili risultati dell’inchiesta, possiamo avanzarne un’ altra: un evento di tale portata non potrebbe comunque allarmare tutto il ceto politico planetaria, tutti gli Stati sovrani, al potere dei quali già agli inizi degli anni Novanta veniva equiparato, dal sottosegretario americano Strobe Talbott, il finanziere George Soros 11?

Un ceto

La risposta a questo interrogativo ci porta dritti alla seconda questione che suscita il testo marxistically uncorrect su Le lotte di classe in Francia.
Se si applicasse la “lente di Marx” (del 1848) alla fase postbipolare in Italia e nel mondo ...
Seconda questione, dunque: il valore euristico del paradigma de Le lotte di classe in Francia per la comprensione della storia, la storia attuale.
Lasciamo infatti perdere l’Ottocento nel corso del quale comunque, anche prima della svolta di fine secolo tratteggiata da Engels nella prefazione al III Libro de Il Capitale da lui “corretto” e pubblicato nel 1894, “pare” che il capitale finanziario e bancario abbia avuto un ruolo determinante in eventi e fenomeni cruciali dell’epoca: la sconfitta di Napoleone, la conquista dell’Algeria del 1830, la costruzione del Canale di Suez con la sua funzione geopolitica centrale per tutta l’ “età dell’imperialismo”; l’acquisto delle azioni del Canale, grazie a un prestito dei Rothchilds alla Corona inglese, mediatore Disraeli, al khedivé d’Egitto; il meccanismo dell’indebitamento finanziario come chiave principale di intervento del colonialismo europeo anche nel resto del Nordafrica; lo scramble for Africa; e per finire la conquista della Libia con l’intervento del Banco di Roma.
Lasciamo perdere tutto questo: proviamo invece ad applicare il Marx del 1848 a fatti, problemi, fenomeni degli ultimi vent’anni. La prima domanda è: chi determina oggi gli eventi cruciali del pianeta? Quale capitale pretende di fare e in buona parte fa la Storia all’alba del nuovo secolo? Quale capitale è protagonista delle terribili guerre che hanno assassinato la Jugoslavia e l‘Iraq?
La risposta dei maghi zurlì dell’ economia “marxista” è che capitale finanziario, bancario e industriale sono fusi in un unicum inscindibile, alibi per disinteressarsi (e restare al servizio sia pure indiretto) del capitale finanziario e bancario: e se i fatti (il conflitto in Confindustria, lo scontro Berlusconi- De Benedetti 12, la dialettica banche piccola e media industria, il controllo finanziario di molti paesi ex socialisti) dimostrano il contrario, gli stessi fatti vengono trasformati con un colpo di bacchetta magica in “parole”, o in contraddizione secondaria del “blocco borghese”, o in semplice “vetrina”, come da battuta militante bernocchiano alla manifestazione contro il G8 aquilano: “er Gi-otto è ‘na vetrina, volemo vedé le case”.
Però i fatti restano i fatti. La constatazione è duplice: primo, è proprio il capitale-gruzzolo, il capitale che nasce e si sviluppa nel cielo della speculazione, che è cioè massa di denaro liquido enorme e libera proprio perché non costretta a essere impiegata nei macchinari e nel salari della “sfera della produzione”: è proprio questo capitale marginalizzato da Marx nel III Libro, ad avere la possibilità di determinare gli eventi cruciali della storia del mondo. Un esempio fra i tanti: Gore Vidal ha raccontato quel che gli aveva detto una volta Kennedy, e cioè che il suo predecessore Truman, si convinse a riconoscere il neonato Stato di Israele quando, “candidato alle elezioni presidenziali” e “praticamente abbandonato da tutti”, un “sionista americano” si era presentato da lui con una valigetta contenente due milioni di dollari in contanti. Non si può dire che quella valigetta – come quelle dispensate a re e principi in età moderna 13- non abbia determinato un’evento chiave per la storia non solo del popolo ebraico, ma dell’intera regione mediterranea e mediorientale 14. Quanti capitalisti industriali disponevano all’epoca, in modo totalmente libero da gravami produttivi, un capitale così ingente?
Secondo, è questo specifico capitale che oggi – in un’epoca storica in cui si è enormemente accresciuto – sta costruendo una rete di dominio mondiale dagli effetti preoccupanti: esso può fomentare e finanziare guerre e destabilizzazioni degli Stati sovrani sotto forma di sostegno alle rivoluzioni verdi e arancioni (Soros), o alle guerriglie di manovalanza islamica ma di progetto altro in Kosovo (Soros), Cecenia (Berezowsky), Bosnia (ancora Soros). E’ capace di finanziare persino la “giustizia internazionale”, come nel caso del Tribunale per il Ruanda la cui Procura (l’accusa cioè) gode di contributi sostanziosi della Fondazione Rockfeller e (di nuovo) di George Soros. Può anche lanciarsi in imprese rischiose e spesso in perdita dal punto di vista puramente economico, ma che hanno un ritorno utile in termini di dominio ideologico e geopolitico: vedi le grandi catene multimediali che all’occorrenza possono scatenare campagne contro la Russia di Putin, l’Iran di Ahmedimnejad, la Libia di Gheddafi e persino – nonostante la radicale, plateale, differenza del quarto esempio – contro l’Italia di Berlusconi. Giornali e reti televisive che inventano genocidi in Jugoslavia, Iraq e Sudan e “crimini contro l’umanità” a Lampedusa. Mass media che diffondono il “pensiero unico” sulle guerre che insanguinano il pianeta, con i movimenti di liberazione nazionali territorializzati e nati per contrastare una occupazione straniera, ridotti a “terrorismo”; e con il terrorismo transnazionale del finanziere Bin Laden equiparato alle guerriglie irachena, libanese, palestinese.
Produzioni cinematografiche con film-patacca ma di effetto sicuro, assai più di cento libri dotti e mille editoriali: come quelli anticristiani con le Madonne escort, o col Codice da Vinci che fa della chiesa e non della classica sinagoga il luogo principe del “complotto”; quelli antislamici e antiarabi tipo Indiana Jones, quelli anti italiani, con i nostri connazionali tutti mafiosi scemi e delinquenti. O quel prodotto mirato contro l’Argentina – un paese annientato anni fa da una crisi finanziaria “manovrata” – che è Evita: dove la donna ammirata e amata dai descamisados di Baires è stata ridotta dal diffamatore di turno a una prostituta, tanto per affossare nella vergogna un grande leader nazionalista e populista come Peron.
C’è poi, forse, il fenomeno emergente del’interesse per il calcio: potrà il finanziere cattolico romano Perez, che ha acquistato per il Real Madrid i supergrandi del calcio mondiale pagandoli con cifre iperboliche, mentre molte altre società vivono gli effetti della crisi economica mondiale, utilizzare la squadra spagnola per eccellenza a fini non solo di incassi ma anche “politici”? Un passato politico lo ha, e le centinaia di milioni di euro che utilizza sembrano non essere di provenienza solo personale. Dunque quale progetto?
E passando ad altra squadra, quale significato attribuire agli assalti periodici di Soros alla Roma? E’ solo uno “sfizio” personale dello straricco magnate, di guidare una ottima squadra di calcio, o anche il desiderio di acquistare quella squadra, nel cuore della Roma cristiana? L’interrogativo probabilmente è eccessivo: è certo comunque che il filantropo Soros fa sempre investimenti “politico-ideologici”, così come è certo che oggi il calcio è diventato, nel bene e nel male, il vettore ideologico di alcune grandi e cruciali tematiche dei nostri tempi: razzismo e antirazzismo ad esempio, con i loro impropri e continui scivolamenti in campi altri, in cui l’antirazzismo è alibi per parlare di tutt’altro e per diffamare religioni, ideologie e politiche diverse dalla propria.
Le attività “ludiche” “culturali” non sono secondarie rispetto al discorso sull’imperialismo e sulla capacità di “determinare” la storia: per spianare la strada alle guerre neocoloniali – come nell’Ottocento col jingoismo – occorrono “opinioni pubbliche” ben educate: è stata la campagna della grande stampa americana (la stessa che oggi “complotta” contro Ahmedinejad e Berlusconi) contro la debolezza dell’ “imbelle” Bush jr, a trascinare quest’ultimo – inizialmente, dopo l’11 settembre, molto titubante - nelle guerre in Afghanistan e in Iraq con la scusa di combattere “Bin Laden”. Già Hobson ricordava il ruolo determinante della stampa nel provocare le guerre della sua epoca, la classica età dell’imperialismo secondo titolo di un libro di Fieldhouse. Ma agli inizi del ‘900 i quotidiani erano fogli per piccole élités: oggi ci sono tutte le tecnologie della multimedialità, grande strumento di liberazione e comunicazione ma anche di propaganda e di omologazione al “pensiero unico” sull’Islam e sulla “democrazia”.

Le riforme economiche e sociali del centrosinistra post-tangentopoli: ma che sinistra è?

La “sinistra finanziaria”, a costo del suo snaturamento 15, non “vede” o non vuole vedere questa dimensione del conflitto economico in Italia e nel mondo, l’importanza cioè del problema banche e finanza negli equilibri sociali e di reddito anche per i lavoratori salariati e stipendiati: i moderati perché subalterni nei fatti alla catena mediatica di Repubblica. Fu il centrosinistra a privatizzare definitivamente il 17 maggio 1999 la Banca d’Italia, il cui capitale è – udite udite! – all’84 per cento in mano a privati.
Quanto ai “marxisti” essi non ne parlano in parte per lo stesso motivo, in parte anche per presunta ortodossia (vedi quanto detto in precedenza), e per paura di confondersi con la destra. Non è la destra, o una parte della destra, che protesta – dalle posizioni moderate a quelle radicali del mio ex collega a Teramo Giacinto Auriti – contro l’assurdità di una moneta nazionale che viene emessa da una Banca “nazionale” in mano ai privati e che costituirebbe di per sé un “signoraggio”, vale a dire un prelievo abusivo di ricchezza dai cittadini attraverso l’emissione di cartamoneta?
Tanto non vedono i marxisti la sfera autonoma della finanza nella dialettica intracapitalistica, che quando parlano dell’alleanza Putin-Berlusconi o diventano emuli di Bernard Henry Levy – uno del solito giro che odia oltre a Berlusconi anche Putin, Ahmedinejad, Hamas, Hezbollah: fra un po’ anche Obama ... – oppure la spiegano in modo ridicolo, l’alleanza, in termini di pacche sulle spalle fra due amiconi che si stanno simpatici. Veramente disastrosi questi presunti “materialisti dialettici”: prima cancellano con la bacchetta magica della loro superficialità la realtà del conflitto in Russia fra Putin e la famiglia finanziaria di Eltsin – quella che infiammava i cuori dei Bernard Henry Levi di tutto il mondo e che si è infranta contro la dignitosa e legittima reazione di Putin (tutti arrestati o esuli, i ricchi finanzieri, e i loro imperi rubati al popolo ricondotti sotto il sostanziale controllo dello Stato) – poi nascondono anche quella del vero conflitto in Italia fra Berlusconi e i suoi nemici falsi progressisti; poi ancora evitano di analizzare la convergenza geopolitica (vedi il viaggio improvviso di Berlusconi ad Ankara, a parlare dell’oleodotto South Stream) dei due leaders: infine concludono con la pietosa barzelletta della pacche sulle spalle. A quale miseria si è ridotto certo marxleninismo del Terzo millennio! 16

Ma di questo si à già abbondantemente detto. Resta la seconda considerazione iniziale per cercare di capire dove sta la destra e la sinistra oggi in Italia, e cioè le riforme economiche e sociali dagli anni Novanta ad oggi. Ci vorrebbe ancora molto spazio per una analisi completa: ma si può dire telegraficamente, credo, che non c’è stata controriforma a danno del mondo del lavoro, dell’occupazione e della lotta al precariato, della sicurezza nei luoghi di lavoro, delle privatizzazioni che non porti l’imprimatur del centrosinistra post-bipolare e post-comunista. Lo jus primae noctis della mattanza della classe operaia italiana e del mondo del lavoro dipendente è stato esercitato, di tappa in tappa, dai vari don Rodrigo del centrosinistra. Il centrodestra è venuto dopo, o solo per razionalizzare svarioni e dimenticanze dell’avversario (vedi la trasformazione dell’ANAS in Spa, o la legge Biagi del 2003), o per capitalizzarne i “vantaggi”, oppure, invece, per fare una politica paradossalmente più avanzata di quella dell’odierna opposizione: come da articolo di Tremonti citato poco fa in nota.
Fa in effetti sorridere vedere Franceschini in mezzo ai precari della scuola, quando si pensa che nel 1993 era stato il governo Amato a privatizzare l’impiego pubblico e nel 1997 il governo Prodi e il suo ministro Treu a codificare il “lavoro interinale”. Rende perplessi l’ “indignazione” “eroica” di certi tromboni a senso unico della cultura “progressista” contro Berlusconi, quando si pensa che non hanno fatto nulla quando nel 1997-1998 il governo Prodi prima e quello D’Alema poi privatizzarono a raffica non solo la Biennale di Venezia e il Centro Sperimentale di Cinematografia, ma decine e decine di istituti storici, culturali, linguistici. Solo Berlusconi è l’ostacolo per la cultura chic dell’Italia “progressista”? Nel 1997 è mancato loro il là di un appello redatto dal loro giornale-partito? Non sanno pensare da soli?

La cronologia secca delle leggi, decreti legge e decreti legislativi mostra con ogni evidenza che è stata la sinistra finanziaria a distruggere in pochi anni il patrimonio costruito in decenni di lotte parlamentari e di piazza della sinistra, nel quale peraltro (vedi il caso dell’Agip e della Banca d’Italia) erano stati opportunamente conservate alcune misure e istituti di epoca fascista: 2 giugno 1992, è nato da poco il governo Amato, incontro sul panfilo reale Britannia fra finanzieri, banchieri e managers italiani inglesi e di altri paesi europei, per delineare la strategia delle privatizzazioni delle economie europee; 18 luglio (ancora governo Amato) un DPR codifica definitivamente l’autonomia del Governatore della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, che non può intervenire per co-definire il tasso di sconto; 31 luglio, il golpe notturno delle privatizzazioni degli Enti pubblici, dopo la campagna della Repubblica contro i “boiardi”, dove assieme all’acqua sporca degli enti parassitari si svendono anche gioielli dell’industria: ENEL e ENI, IRI. 8 agosto, è la volta delle Ferrovie, anch’esse trasformate in società per azioni.

Febbraio 1993, tocca ai Monopoli di Stato. Sempre nel 1993, il nuovo governo Ciampi dispone la separazione di Agip e Snam dall’ENI spa e la dismissione delle partecipazioni del Tesoro dall’Agip, Ina, Enel, e dalle banche IMI, Commerciale e Credito italiano. 1997, le già ricordate privatizzazioni di enti culturali da parte di Prodi, e il pacchetto Treu sul lavoro interinale con la legge 196 del 24 giugno.

1999, prima l’accordo sull’euro ad un tasso di cambio che si rivelerà disastroso per i redditi fissi, a causa del dimezzamento di fatto di stipendi e salari. Poi un secondo provvedimento cruciale: poi, il 17 maggio il governo D’Alema permette anche alle fondazioni bancarie di diventare azioniste della Banca d’Italia, che si trasforma così completamente in un ente di fatto privatistico, i cui azionisti saranno occultati all’opinione pubblica fino a che una inchiesta di Famiglia cristiana del 2004, non svela gli altarini: più dell’84 per cento del capitale della Banca “di stato” è in mano a privati! La filosofia che sta dietro questo smantellamento della peraltro moderata strutturazione del sistema bancario italiano, oggetto di campagne durissime da parte della stampa della sinistra finanziaria – vedi l’assalto del Corriere di Mieli al cattolico Fazio nel 2005, mentre stava per andare in porto una legge destinata a riportare in mano pubblica il capitale della BdI - è la solita solfa dell’ “autonomia”. E’ lo stesso leitmotiv utilizzato per la riforma Berlinguer dell’Università (altra perla del centrosinistra, a cui Moratti e Gelmini hanno portato qualche miglioramento in positivo): anche l’ “autonomia” degli Atenei è solo presunta, ed è un modo per “liberare” l’autorità e il bilancio centrale dello Stato dal costituzionale obbligo del finanziamento dell’Istruzione pubblica, abbandonando le Università o al degrado e al declino, o alla sottomissione al capitale privato e a gruppi di potere più o meno massonici. Il tutto mentre la vera autonomia degli Atenei – intesa come autonomia del corpo docente e dei propri organi di rappresentanza collegiale - rischia di venire cancellata progressivamente.
Dimentico probabilmente qualche capitolo, ma credo che questi siano già sufficienti. Rispetto alla deriva liberista e antioperaia di tutti i governi del centrosinistra dagli anni Novanta ad oggi, Berlusconi e il centrodestra o hanno ereditato i “frutti” per loro più comoda gestione magari evitando di prendere necessari provvedimenti (come il blocco-controllo dei prezzi dopo il disastroso cambio dell’euro ad opera di Prodi) oppure hanno cercato di porre qualche piccolo o meno piccolo rimedio a vantaggio del mondo del lavoro e dei cittadini. Si sarebbe potuto, e si potrebbe distinguere di volta in volta fra problema o problema, opponendosi o sostenendo questa o quella proposta: ma asservita alla potente catena mediatica “progressista”, la “sinistra finanziaria” è incapace di tutto questo. Cerca solo lo scontro frontale, nato sul nulla, cioè sulla vicenda delle escort, in un momento in cui il governo stava mostrando le sue effettive capacità di risolvere alcuni problemi chiave del paese, dall’immondizia a Napoli al terremoto d’Abruzzo.

Anche le frange più radicali della sinistra finanziaria hanno imboccato questa strada: anzi soprattutto le frange più radicali, che sublimano nel mito assurdo di un nuovo luglio 60 la riscossa mancata di chissà quale “proletariato”.
Tranquilli, compagni: posto che fosse prossimo qualcosa che possa assomigliare al luglio 60 (cosa assai improbabile) esso non avrebbe alle spalle il PCI di Togliatti e il PSI di Nenni, né avrebbe come sbocco le nazionalizzazioni del centrosinistra DC-PSI di mezzo secolo fa. Alle spalle della vostra “rivoluzione” ci sarebbe il capitalista De Benedetti: con le sue profezie recenti sulle “spese proletarie” nei supermarket, con i suoi passati licenziamenti all’Olivetti, 2-3000 operai in un sol colpo, e con la vicenda SME emblema della svendita del patrimonio pubblico al capitale privato. Alle spalle questo, e in prospettiva nessuna, nessunissima rivoluzione ma l’esatto opposto: il secondo colpo di stato nella storia della Repubblica dopo quello di Tangentopoli, e dopo quelli falliti, dello stesso sostanziale segno quanto a politica sociale e economica, degli anni Sessanta e Settanta. La prima Tangentopoli è stata esaltata dalla sinistra estrema (tranne piccole, marginali, inutili eccezioni) poi è arrivata la riflessione e il quasi pentimento vista la macchina delle privatizzazioni e del maggioritario messe in moto dalla “rivoluzione” dipietrista. Adesso si ricomincia, tutti appresso alle dieci domande. Perché non fermarsi un attimo, riflettere, cambiare rotta?

Claudio Moffa
www.claudiomoffa.it

Note:

1 Crisi: Tremonti, diverso se debito cresce per salvare gente o banche (ASCA) - Rimini, 28 agosto 2009

2 Articolo de il manifesto

3 Per Marx il “capitale commerciale” ha la funzione di “semplice commesso del produttore” (Libro III, I, p. 329)

4 “... nel processo di circolazione non viene creato alcun valore, quindi alcun plusvalore ... Se in conseguenza della vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore, ciò avviene perché tale plusvalore si trovava già fin da prima in essa contenuto” (Ivi, p. 339).

5 Su internet si trova il testo completo de Le lotte di classe... sul sito
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1850/lottecf

6 Carlo Marx, Il Capitale, III, 2, 27, p. 125, Editori Riuniti, Roma.

7 J. A. Hobson, L’imperialismo, Newton Compton, Roma.

8 Leggi il testo della relazione nel link sul sito

9 Claudio Moffa, Quale identità comunista?, L’Ernesto, pp. 15-16 (vedi il link sul sito), IV, n. 8, ottobre 1996.

10 James Petras

11 La Casa Bianca su Soros: “conta come uno Stato”, il Corriere della Sera 19 gennaio 1995: “Lavorare con Soros è come lavorare con un’entità amica, alleata indipendente, se non con uno Stato – dice Strobe Talbotto, sottosegretario di Stato americano, il numero due della politica estera di Clinton – Noi cerchiamo di sincronizzare il nostro approccio ai Paesi ex comunisti con la Germania, la Francia, la Gran Bretagna. E con George Soros”

12 Uno scontro del quale un trafiletto di una quindicina d’anni fa su La Stampa, p. 2, da un significato simbolico per due concezioni (radicalmente?) diverse del capitalismo e del connesso “rischio imprenditoriali”. Nella battuta Berlusconi criticava il far profitti passando i soldi “da una cassaforte a un'altra”.

13 Non solo Werner Sombart ma anche Fernand Braudel ha ricordato il ruolo cruciale delle comunità mercantili e bancarie in epoca preindustriale

14 Israel Shaak, Storia Ebraica e Giudaismo: il peso di tre millenni, Prefazione di Gore Vidal, Sodalitium, Torino (prefazione)

15 Giulio Tremonti, L' imposta progressiva? un mito " reazionario". Ora i tributi " indiretti " sono diventati di sinistra e i " diretti " di destra. necessario il passaggio dalle tasse sulle persone a quelle sulle cose, Corriere della Sera, 26 aprile 1994

16 Dopo aver scritto queste righe polemiche sul “marxleninismo” attiale, leggo un articolo di Leonardo Mazzei del Campo antimperialista sulla competizione economica e geopolitica fra gli oleodotti South Stream e Nabucco, che si conclude con il riconoscimento della serietà della contraddizione e delle scelte (obbligate?) del governo Berlusconi ad Ankara, e dunque con la sconfessione di quella che lui stesso definisce interpretazione gossipara della vicenda: vale a dire, udite udite, uno scambio fra “bionde” russe e South Stream, con Putin che incassa l’opzione pro-Gazprom e il Berlusca che fa il pieno di escort per le sue ville. E’ veramente pazzesco! Lo spazio che Mazzei dedica a questa ipotesi “interpretativa” potrebbe indicare un mio eccessivo pessimismo sullo stato di salute della sinistra marxisteggiante in Italia, e invece ne è la conferma: un’area fino in fondo succube del giornale-serva del progressismo italiano. Perché, se Mazzei deve dedicare tanto spazio a questa ridicola bufala (come se, peraltro, nei paesi attraversati dal Nabucco non ci fossero escort da esportazione altrettanto attraenti delle “bionde russe”) per convincere il suo pubblico, vuol dire proprio che questo è completamente rimbambito, diseducato al raziocinio e alla serietà politica da quindici anni di qualunquismo antiberlusconiano. (L. Mazzei, I tubi di Putin, letto su Arianna editrice – fonte Campo antiimperialista).

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