La crisi finanziaria ed economica scoppiata negli Stati Uniti, alimentata dalla complicità della finanza britannica, e propagatasi poi a tutto il mondo, ha messo a nudo la debolezza della struttura economica a stelle e a strisce condizionata da un enorme debito commerciale e da un altrettanto enorme debito pubblico, ulteriormente aggravato dagli interventi statali del duo Bush ed Obama a favore delle industrie e delle banche che avevano massicciamente speculato.
L’anomalia americana L’economia statunitense si regge infatti in piedi grazie alla domanda interna e al prestigio di Washington come prima potenza politica e militare mondiale, l’unico Paese in grado, e in tempi rapidi, di spostare le proprie truppe in ogni angolo del globo per imporre i propri interessi o tutelarli quando appaiono minacciati. Dopo il crollo e il dissolvimento dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti si sono infatti trovati ad essere e ad essere percepiti come la sola potenza militare in grado di muoversi autonomamente e di trascinarsi dietro i recalcitranti alleati, italiani in testa. Questa centralità di Washington ha impedito in particolare il crollo del valore del dollaro che, se se fosse stata un’altra moneta, avrebbe già dovuto risentire pesantemente del doppio peso del debito pubblico e di quello commerciale. Un debito pubblico che ha ormai superato per entità il prodotto interno lordo e questa peculiarità, già grave di per se stessa, assume un significato tutto suo se si pensa che la maggioranza dei titoli di Stato che lo compongono sono stati acquistati dalla Cina per un importo di 1,7 trilioni di dollari. Per la cronaca un trilione è pari a mille miliardi. Questo farebbe supporre un legame inestinguibile fra Washington e Pechino ma da tempo ormai le cose non stanno più così. La Cina è ben cosciente della debolezza degli Stati Uniti e della loro moneta anche se non può permettersi di mettere sul mercato le proprie riserve valutarie in dollari che finirebbero per trasformarsi in carta straccia. In realtà, se si considera l’abnorme quantità di dollari in circolazione sui mercati, la moneta verde è già carta straccia solo che manca qualcuno o qualcosa che lo decreti ufficialmente. La Cina, nella sua fase di crescita e di espansione economica, ha avuto bisogno di legarsi all’economia Usa soprattutto per trovare un mercato di sbocco ai propri prodotti. Ma ora, soprattutto perché ci troviamo in un periodo di recessione, un meccanismo del genere non può più funzionare. Tre anni fa Pechino aveva abbandonato il cambio fisso tra dollaro e yuan. Poi negli ultimi anni comprando dollari ha mantenuto basso il valore della propria moneta e ha aiutato le proprie esportazioni oltre oceano, ristabilendo di fatto un rapporto di cambi fissi tra le due monete. Ma la crisi in corso ha cambiato i termini della questione e la Cina, dopo aver registrato una leggera rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro, ha deciso di gettare il primo seme per mettere in discussione l’intero sistema e la centralità del dollaro. Così il governatore della Banca centrale e lo stesso primo ministro di Pechino hanno proposto che il dollaro, in conseguenza della propria debolezza, e della propria sopravalutazione, non debba più essere utilizzato come moneta di riferimento negli scambi commerciali internazionali. Insomma la Cina non vuole che il suo sviluppo economico dipenda dalla domanda di beni proveniente dagli Stati Uniti ma intende semmai seguire la strada che ha sempre caratterizzato lo sviluppo economico americano: quella di puntare sulla domanda interna come fattore trainante e diminuire la dipendenza dall’estero e quindi dalle esportazioni.
Più oro per rafforzare lo yuan All’interno di tale disegno deve essere letta anche l’altra significativa svolta cinese, quella di investire massicciamente sull’accumulo di oro le cui riserve nei forzieri della Banca di Cina negli ultimi anni sono semplicemente raddoppiate. Pechino vuole insomma diventare una potenza economica a tutti gli effetti, con una struttura interna solida che sia dimostrata dall’affermazione dello yuan come moneta globale di riserva, come valuta di riferimento per il sistema monetario mondiale. E una sua proposta in tal senso è stata già presentata nelle sedi finanziarie internazionali come Fondo monetario e Banca mondiale. Una proposta che coinvolge come moneta di riserva non solo lo yuan ma anche lo yen giapponese e l’euro. Se questo è il traguardo finale sognato, la Cina sa però bene di essere parzialmente bloccata perché corre il rischio di veder svalutare i propri investimenti di miliardi e miliardi di dollari. Da parte sua Washington persegue un’altra strategia grazie alla stesso disegno seguito in passato nei riguardi dell’Europa. Svalutare il dollaro servirebbe sia a rilanciare la propria economia dalla crisi sia a far perdere valore alle riserve cinesi in moneta verde. L’economia cinese non è comunque tutta rose e fiori. Come sempre succede, dopo la prima fase caratterizzata da un boom delle esportazioni reso possibile da un costo del lavoro pari ad un decimo di quello europeo, da agevolazioni fiscali per le imprese estere che avevano deciso di aprirvi nuovi stabilimenti dove delocalizzare la produzione, per la Cina è arrivata inevitabile la tappa successiva. Una fase, quella attuale, caratterizzata dal calo del tasso di crescita e da un impressionante sviluppo tecnologico che ha abbattuto ulteriormente il costo del lavoro per unità di prodotto e ha innescato l’esplosione della disoccupazione non compensata da un qualsivoglia ammortizzatore sociale in grado di sostenere la domanda interna.
Gli Usa si leccano le ferite Il segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner, nella sua visita di inizio giugno in Cina, ha chiesto a Pechino di continuare a comprare i titoli di Stato americani e di aumentare i consumi interni e quindi la domanda di beni made in Usa. Allo stesso tempo Geithner ha garantito in cambio agevolazioni per le merci cinesi e migliori rapporti economici e politici tra le due super potenze e quindi un maggiore ruolo dei Pechino negli organismi finanziari internazionali. Si tratta in ogni caso di movimenti in divenire che avranno bisogno di diversi anni per concretizzarsi. Resta la realtà di una economia, quella statunitense, che con la crisi finanziaria dello scorso anno ha messo in evidenza da un lato tutta la propria debolezza strutturale e dall’altro ha sottolineato quello che potrebbe rivelarsi l’elemento determinante del crollo finale. L’indebitamento delle famiglie ha raggiunto livelli allarmanti, molte sono quelle che hanno dovuto dichiarare bancarotta. La politica della Federal Reserve di tassi di interesse bassi non ha spinto solamente le banche ad indebitarsi per poter speculare. Anche le famiglie, convinte che la cuccagna potesse durare in eterno, avevano utilizzato a più non posso le carte di credito, lo strumento di pagamento per eccellenza negli Stati Uniti e sul quale da sempre le banche erano solite largheggiare. Ma la mazzata decisiva è arrivata dal crollo del mercato dei mutui subprime e con la conseguente nazionalizzazione di fatto dei due colossi del settore, Freddie Mac e Fannie Mae, che hanno trascinato con sé i destini di milioni di famiglie che si erano indebitate per comprare case di legno in cui nessun italiano abiterebbe mai e che sono le vittime predestinate degli uragani che devastano le zone centrali e meridionali degli Stati Uniti. Gli interventi del Tesoro Usa, più che gli aiuti alle famiglie, penalizzate dalla stretta creditizia, con il fine di sostenerne il potere d’acquisto e sostenere la domanda interna e i consumi, hanno però privilegiato le regalie alle banche e alle industrie, Un segnale evidente che, al di là di una lettura forzata della figura di Obama come uomo del popolo, con un presidente democratico invece di uno repubblicano ben poco è cambiato alla Casa Bianca e al Congresso dove continuano a farla da padrone l’Alta Finanza e la Grande Industria attraverso le loro lobby. Ma questo ruolo imperiale degli Stati Uniti, questa struttura economica basata su un indebitamento infinito scaricato sull’estero, e questo sistema di potere che intende perpetuare se stesso in eterno, appaiono sull’orlo di un inevitabile declino. Un tracollo che è già in corso e che è inarrestabile proprio perché non c’è più nessun Paese estero che abbia la forza e l’interesse per impedirlo, semmai solo per ritardarlo. Il declino dell’impero Usa è confermato peraltro da tanti altri piccoli segnali che dovrebbero far suonare il classico campanello d’allarme. Il sistema ideale, politico ed economico americano è in crisi perché, al di là dell’abusato luogo comune sul Paese dove i sogni si realizzano, ha dimostrato tutta la sua debolezza e non viene più percepito come modello. Ma c’è anche un altro aspetto più pratico e poco considerato. I soldati Usa mandati ad imporre tale modello in giro per il mondo infatti non rappresentano più il popolo americano non essendo altro che dei mercenari e come tali sono percepiti. Un po’ come le legioni romane che, nel periodo del Basso Impero, erano formate da barbari assoldati per combattere altri barbari. Ma quando i cittadini non sono più disposti a rischiare la vita per gli interessi del proprio Paese, o per i suoi “valori”, significa che ci si trova in piena decadenza. E da qui nasce il disegno di scaricare sui Paesi amici sia le proprie debolezze economiche sia una parte del ruolo di gendarme del mondo. Si tratta però di un gioco destinato a durare poco perché gli interessati comprendono bene che i benefici finiscono inevitabilmente per non essere proporzionali ai costi sostenuti. Così anche i Paesi un tempo “amici”, gli europei, e quelli di più recente acquisizione, la Cina, hanno incominciato a porsi l’interrogativo se i legami con Washington siano ancora convenienti o se invece non siano addirittura espressione di un mondo che è radicalmente cambiato. Da qui il riaccendersi di rapporti “storici” improntati ad una geopolitica più fisiologica come quella tra Europa (in particolare la Germania) e Russia e tra la stessa Russia e la Cina in nome del classico principio “tecnologia in cambio di energia”. Un riaccendersi di legami che Washington teme perché è ben cosciente del rischio di esserne completamente tagliata fuori
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