L’equilibrio economico e l’Economia da Depressione
“Il ritorno dell’Economia della Depressione e la crisi del 2008" è il nuovo libro di Paul Krugman (www.garzantilibri.it). L’opera del premio Nobel per l’Economia (nel 2008), descrive le varie forme di depressione che possono colpire le diverse economie nazionali e mondiali.
Si parte dalla fine della guerra fredda con la vittoria socioeconomica occidentale: il sistema comunista aveva esaurito tutte le sue energie e i suoi capitali in armamenti ed era collassato psicologicamente ed economicamente davanti agli enormi successi commerciali, economici e militari del capitalismo occidentale. Probabilmente anche lo smacco della grave sconfitta nell’orribile guerra dell’Afghanistan ha dato il suo contributo anche se “La ragione per cui l’Unione Sovietica sia finita così all’improvviso, senza esplosioni, ma solo con un leggero brontolio, va considerata uno dei grandi misteri dell’economia politica… alcuni dicono che il fervore rivoluzionario non può durare per più di un paio di generazioni” (p 15). Forse il formalismo e la burocratizzazione sono i killer di tutti i sistemi sociali. E ora anche il capitalismo sta affrontando una crisi epocale. E il motivo potrebbe essere sempre quello di un eccesso di politicizzazione ideologica e di burocratizzazione acritica: la figura eroica dell’imprenditore responsabile, creativo e inventore diventa sempre più rara e viene sostituita da freddi manager di multinazionali che lavorano principalmente con i numeri, rischiano il capitale di altri e passano il loro tempo a intrallazzare con il politico di turno. Quindi “con la nascita delle aziende moderne, la creazione di organizzazioni compatibili alle moderne tecnologie e ai sistemi di pianificazione, e la separazione tra la figura di chi possiede il capitale e quella di chi gestisce l’azienda, scompare l’imprenditore, inteso come persona impegnata nella gestione di mature strutture industriali” (John Kenneth Galbraith, 1968).
Per quanto riguarda la crisi del Messico: “i politici avevano permesso alla valuta di sopravvalutarsi, avevano aumentato il credito invece di limitarlo quando sono iniziate le speculazioni nei confronti del peso, e avevano gestito goffamente la svalutazione finendo per innervosire gli investitori… c’era un passato ancora irrisolto infarcito di populismo e antiamericanismo; si sarebbe quasi potuto concludere che il crollo era una punizione per i brogli dell’elezione del 1988” (p. 61). Così la crisi del Messico, un paese dell’America Latina, finì per mettere nei guai anche l’Argentina per associazione d’idee: molti funzionari americani che temevano per le economie dell’area, iniziarono a ridurre i crediti ai clienti argentini. Questi clienti si rivolsero allora alle banche argentine che, per riequilibrare i loro conti, iniziarono a chiedere il rimborso di alcuni debiti e così via.
Il caso del Giappone è invece molto diverso: dopo molti anni di crescita continua si arriva ad “una recessione in crescita”. Questo situazione “accade quando un’economia cresce, ma non abbastanza velocemente da tenere il passo con la capacità di espansione dell’economia, così che sempre più macchinari e lavoratori restano inutilizzati” (p. 76). Inoltre anche in Giappone era scoppiata una bolla immobiliare gigantesca che ha preannunciato lo scoppio di quella americana e di quella mondiale (compreso una montagna indefinita di debiti). Infine, sempre negli anni Novanta, i giapponesi, sempre più timorosi e vecchi, hanno iniziato a non spendere: sono caduti nella “trappola della liquidità”. Questo fenomeno giapponese dura da più di un decennio e probabilmente trascinerà molte economie occidentali e forse anche quella mondiale in uno scenario di questo genere. I soldi sono sempre meno per tutti (le bolle in crescita sono solo soldi computerizzati), diventiamo sempre più anziani e timorosi e i più ricchi si tengono stretti quasi tutti i soldi accumulati in attesa di tempi migliori per fari investimenti. Anche se in realtà i momenti migliori per investire in ricerca e sviluppo sono proprio i periodi di crisi perché consentono di guadagnare più posizioni e più soldi rispetto ai concorrenti più deboli e impreparati. Questa trappola della liquidità sembra la versione umana e sociale della trappola della scimmia: questo curioso fenomeno consiste nel fatto che la scimmia che afferra un frutto voluminoso dentro un contenitore fissato a terra, non molla il frutto, anche se rimane imprigionata (nemmeno la mano invisibile dell’evoluzione può prevedere tutto).
Invece per la Thailandia le cose andarono diversamente: alcuni paesi europei e il Giappone investirono nell’economia thailandese , ma dopo i primi anni di successi nelle esportazioni i mercati si indebolirono, svanì la fiducia, alcuni prestiti e investimenti finirono male e si scatenò la corsa al disimpegno estero. Questa situazione creò degli effetti di contagio da sfiducia sui paesi limitrofi come l’Indonesia e la Malesia. L’Indonesia ebbe la peggio, invece la Malesia inaugurò la prima economia finanziaria di origine islamica. In effetti alcuni Hedge Funds occidentali avevano speculato sulle difficoltà dei paesi orientali. Gli Hedge Funds sono fondi di investimento molto particolari: possono vendere alla scoperto (non anticipano denaro), hanno poco capitale di garanzia, hanno spesso una sede off-shore in paradisi fiscali e non si sa bene l’ammontare dei loro depositi totali. Quello che si sa è che guadagnano sulle fluttuazioni e sull’instabilità dei mercati, per cui non hanno nessun interesse nel mantenere sana l’economia e i posti di lavoro. Come diceva un vecchio banchiere è molto bello pescare in acque agitate.
Anche nel caso del Brasile si arrivò ad una crisi speculativa galoppante autoalimentata che non teneva conto dei fondamentali economici: negli ultimi anni “la politica economica internazionale ha poco a che fare con l’economia. È diventata più che altro un esercizio di psicologia dilettantistica, con il quale il Fondo Monetario Internazionale e il segretario al Tesoro hanno cercato di convincere i paesi a fare cose che speravano fossero percepite dai mercati come rassicuranti” (p. 129). Non bisogna però dimenticare i tentativi di colonizzazione economica e finanziaria indiretta e il conflitto d’interessi americano derivante dal “Signoraggio” del dollaro, che è la moneta di riferimento internazionale per la compravendita del petrolio e per altri scambi.
Comunque l’approccio eclettico e diretto dell’economista rende il libro molto interessante e circostanziato. Le teorie uniche servono solo ad acquisire più peso politico perché risultano più facili da comprendere e più vantaggiose a breve termine, ma risolvono pochi problemi reali e anzi ne causano molti a medio e lungo termine. Ci sono inoltre molti riferimenti storici relativi alla lunga crisi del ’29, che sono molto illuminanti come questo: “nel 1931 circa la metà delle banche degli Stati Uniti fallirono. Queste banche non erano tutte uguali. Alcune erano gestite molto male; alcune avevano affrontato rischi eccessivi… altre ancora erano ben gestite, sebbene in maniera piuttosto conservatrice. Ma quando il panico si diffuse nella nazione e i risparmiatori cominciarono a chiedere indietro il loro denaro, niente di questo ebbe più importanza: sopravvissero solo le banche che avevano mantenuto in contanti una percentuale di depositi che in tempi normali sarebbe stata considerata eccessiva” (p. 110). In alcuni casi la trappola della liquidità bancaria può essere utile: si rinuncia ai guadagni ma ci si salva la vita in caso di terremoto da clienti impauriti.
Per fare una metafora a prova di bambino si potrebbe descrivere l’equilibro economico come uno stato che può andare in crisi per vari motivi: uno sgambetto da parte di speculatori; l’ubriacatura da vendite al rialzo; l’eccessivo uso di droghe monetarie che possono portare in coma; l’eccessivo invecchiamento della popolazione che concentra i capitali, blocca l’innovazione e fossilizza il risparmio; l’inciampo da vecchiaia industriale; una buca dovuto all’esaurimento di risorse, ecc.
L’attuale crisi è quindi diversa, ma è “simile a tutto ciò che abbiamo visto in precedenza, però tutto insieme: l’implosione di una bolla immobiliare (come in Giappone); un’ondata di corse agli sportelli paragonabile a quella degli anni trenta (che ha coinvolto il sistema bancario-ombra delle banche d’affari senza conti correnti); un grosso problema di liquidità negli Stati Uniti (come in Giappone); e ultimamente una discontinuità dei flussi internazionali di capitale e un’ondata di crisi valutarie fin troppo simile a quella che si è avuta in Asia alla fine degli anni Novanta” (p. 185). Perciò “L’analisi economica non è, o in ogni caso non dovrebbe essere, un insieme di regole valide in tutte le occasioni; dovrebbe invece essere un modo di pensare, qualcosa che permetta di adattare le risposte a un mondo in continua evoluzione… dai vecchi modelli si possono imparare nuove soluzioni” (p. 218). Purtroppo gestire l’economia è come “guidare una macchina estremamente sensibile di cui non conosciamo il funzionamento” (John Maynard Keynes, 1930).
Forse un futuro diverso è possibile eliminando molte tentazioni per gli speculatori: un primo passo potrebbe essere quello della creazione di supermonete continentali per aumentare la forza di risposta all’azione predatrice degli speculatori dei Fondi di investimento: l’Euro c’è già e potrebbe allargarsi alla Russia (la garanzia monetaria europea farebbe da controparte al petrolio e al gas russo), la moneta islamica del Medio Oriente è in fase di progettazione, quella sudamericana pure, gli Stati Uniti, il Canada e il Messico ha stretto rapporti economici molto stretti, e la Cina, l’India, il Giappone e la Corea possono costituire una moneta asiatica insieme agli altri paesi della regione. Così in un paio di decenni si potrebbe unificare il sistema monetario, creare la moneta unica mondiale ed eliminare per sempre le speculazioni nazionali, e l’antiquato, pericoloso e infantile nazionalismo (la moneta è ancora un grande simbolo di riferimento per ancorare l’identità).
E bisogna pensare che allargando i mercati, si aumenta anche la massa di lavoratori che si fanno concorrenza tra loro abbassando i salari procapite a livelli indecenti, perché non c’è ancora una legge del minimo sindacale continentale. Insomma, nessuno vuole ammettere che siamo diventati troppi su questo pianeta. E se non ci muoveremo in fretta fra pochi anni riapparirà in molti continenti il grande mostro senza volto: la fame mondiale. Questo per tre semplici motivi: il cibo aumenterà di valore, i soldi a disposizione saranno sempre meno e le bocche da sfamare saranno sempre di più.
In pratica, basterebbe distribuire il potere d'acquisto per distribuire il cibo. Invece, si rende scarso il cibo rendendo scarsa la moneta per rendere scarsi gli abitanti. D'altra parte, che se ne fa il mondo di gente che non capisce niente ?
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