Nino Galloni: POSTFAZIONE a "MONETA NOSTRA", di M. Saba
Non solo i più disattenti in generale, ma soprattutto i più esigenti tra i cultori della materia monetaria saranno soddisfatti da questo testo di Marco.
Per prima cosa, pertanto, verrebbe di chiedersi: ma perché, se siamo tutti utenti della moneta – date le generali problematiche dell’economia, peraltro in continuo aumento – non siamo tutti, altresì, cultori di tale materia?
La risposta è implicita ed esplicita nel testo di Marco Saba ed il lettore che è arrivato fino a questo punto, leggendolo, non ha bisogno di ulteriori approfondimenti, se non un rinvio ad alcuni testi di uno studioso, un altro Marco, Della Luna (vedi, ad esempio, “Polli da spennare” e la seconda parte de “La moneta copernicana”), particolarmente attento all’aspetto dei grandi condizionamenti di massa.
Invece, io vorrei sottolineare qui tre aspetti importanti del lavoro di Saba ed aggiungervi una mia considerazione finale di cui io stesso non saprei valutare precisamente l’importanza, vale a dire il tentativo di risposta ad un’annosa – ma a mio parere particolarmente attuale oggi – domanda: perché le teorie cosiddette alternative circa la moneta (vedi i lavori di Marco della Luna, dello stesso Saba, ma anche miei e di Federico Caffè, recentemente ripubblicati……….) hanno avuto un discreto successo a “destra” (dove, peraltro, pur non esistendo una vera e propria scuola, campeggia un gigante come Giacinto Auriti che lo stesso Caffè, pur marcatamente di “sinistra”, apprezzava e stimava) ed, invece, non hanno trovato un adeguato seguito proprio a “sinistra”?
Più avanti ne farò una questione “storica”, cruciale forse, per aiutarci a capire cosa non ha funzionato nella penetrazione della cultura marxiana nei Paesi di più antica industrializzazione e cosa impedisce, oggi, alla cosiddetta sinistra di ergersi a referente di un qualche utile e innovativo progetto politico.
Intanto torniamo alle tre brillanti intuizioni di Marco Saba. La prima e, forse, più importante o, meglio, cruciale, riguarda la fattibilità (non solo pratica, ma anche legale) di una nuova moneta nazionale – o locale, regionale! – a prescindere dal destino dell’euro. Tale intuizione, infatti, sposta il tema di una moneta adeguata ai bisogni della popolazione (in alternativa alla situazione attuale, vale a dire di una popolazione che non riesce ad adattarsi ai dettati “supremi” della moneta), dal campo della sterile utopia a quello della volontà politica o, se si preferisce, della volontà tout court: la conseguenza della lettura di questo testo, quindi, dovrebbe portarci a concludere che non ci sono ostacoli all’azione, salvo quelli che noi stessi – per i nostri limiti mentali o per le nostre paure – tendiamo ad inventarci.
Pur senza nulla togliere alla documentatissima e, per certi versi, esaustiva (se non fosse una limitazione, direi anche enciclopedistica) ricerca storica di Marco, ho trovato di grande interesse – politico-didattico – altri due passaggi del libro.
Uno riguardante l’approfondimento della “monetità creativa” delle fiches del casinò. In teoria, infatti, parafrasando l’acuta analisi di Marco, potrebbe dirsi che chiunque raccolga denaro dai giocatori e poi abbia ben chiaro il meccanismo in base al quale (in termini di calcolo delle probabilità), il Banco tende a vincere “quasi” sempre, può emettere moneta (le fiches) a vuoto – da riutilizzare per obiettivi sociali, ad esempio - solo avendo l’accortezza di accantonare una riserva adeguata per i (pochi) vincitori e, quindi, per i pochi che tornano alla cassa per scambiare le fiches stesse con denaro corrente.
L’altro argomento, riguarda il modello post-coloniale (dagli anni sessanta dello scorso secolo in poi) di monetizzazione o, meglio, di dollarizzazione della dipendenza; ma qualsiasi valuta accettata a livello internazionale è apparsa idonea allo scopo.
In pratica, si tratta di questo: al momento della proclamazione dell’indipendenza, il singolo Stato, ad esempio africano, emise la propria moneta nazionale; ma, per ottenere che i grandi operatori internazionali non la scartassero drasticamente, fu obbligato a far sì che l’Istituto di emissione disponesse di una copertura completa della stessa moneta nazionale in valuta pregiata dell’ex colonizzatore. In tal modo quest’ultimo potè disporre di capacità di acquisto illimitato nell’ex colonia, mentre il Paese divenuto “libero” fu costretto a continuare nella propria dipendenza.
I Paesi africani, dunque, saranno liberi solo quando potranno emettere una propria valuta a circolazione limitata dalla loro stessa capacità di produrre i beni e i servizi di cui abbisognano; quest’ultima, dunque, la capacità produttiva, è la loro vera sfida, non quella di veder accettata la loro valuta sui mercati mondiali (allo scopo di approvvigionarsi di quei beni per produrre i quali non si sono ancora organizzati).
Ed eccoci all’annunciato argomento finale, del perché la cosiddetta sinistra sia risultata e risulti tuttora (con ovvia ed irreparabile asfitticità del suo o dei suoi programmi) refrattaria ad abbracciare con risolutezza un progetto che sia contrario ai poteri forti anche in materia monetaria e creditizia.
Marco accenna, non senza acume, alla vicenda della Comune di Parigi (1871) dove lo stesso Marx aveva indicato come unica possibile via di salvezza l’espropriazione totale della Banca di Francia e l’emissione (con sufficiente copertura aurea) non solo di una moneta “rivoluzionaria” fiduciaria (promissoria), ma di una valuta (rivoluzionaria) a vero e proprio corso legale. Senza un tale strumento allora come ora, infatti, non può parlarsi di sovranità dello Stato (liberale, democratico o socialista che sia), ma solo di embrioni legati a qualche non meglio identificato cordone di dipendenza: non a caso i poteri forti internazionali combattono gli Stati nazionali e le loro valute e propugnano un sistema, anche valutario, sovranazionale (vale a dire che prescinde da qualunque sistema di sovranità popolare e di controllo sulla finanza).
L’analisi di Marx può permettersi di prescindere dagli interrogativi sulla quintessenza della moneta perché si svolge a valle del processo capitalistico: Marx, infatti, studia il passaggio da un’economia per così dire pre-capitalistica (in cui il danaro è soprattutto uno strumento atto a stimolare i processi produttivi) ad un’economia capitalistica in cui l’accrescimento delle disponibilità finanziarie in possesso degli stessi capitalisti costituisce l’obiettivo precipuo del sistema: Marx, infatti, definisce tale passaggio - da un sistema economico in cui l’obbiettivo sociale appare costituito dall’adeguamento dei livelli produttivi ai bisogni della gente e del mercato ad un sistema economico in cui l’obbiettivo è la valorizzazione del capitale (anche) tramite i processi produttivi – come cruciale.
Ora, nell’idilliaco mondo precapitalistico (che era altresì più arretrato e,comunque, pieno a sua volta di ingiustizie, ma tendenzialmente più “umano”), le capacità tecnologiche disponibili erano talmente basse da lasciare ad un improbabile orizzonte lontano la condizione di completa soddisfazione dei bisogni (almeno materiali) della popolazione. Con il passaggio analizzato da Marx e riguardante l’epoca precedente la cosiddetta rivoluzione industriale, allora, il denaro serve per comperare le materie prime, il lavoro, le tecnologie stesse, i semilavorati; e l’obiettivo diventa la capacità - da parte dei capitalisti (Marx è molto ambiguo nella distinzione tra imprenditore e proprietario del mezzo di produzione) – di impossessarsi di una quantità di denaro maggiore di quella anticipata. Marx sottolinea le tante ragioni per le quali un tale sistema poteva apparire superiore al precedente ordine feudale, ma compie la sua profezia che tale sistema sarebbe finito quando la contraddizione fra le forze produttive (che hanno interesse al pieno adattamento della produzione alle esigenze dei produttori stessi) e la ristretta classe capitalistica, apparirà socialmente insostenibile.
Semplificando molto le cose, potrebbe dirsi che il sistema capitalistico tende alla concentrazione delle risorse (del potere, dei mezzi produttivi, del danaro) in poche mani – anche attraverso i meccanismi della concorrenza che finiscono, naturalmente, per portare agli oligopoli se non addirittura al monopolio – sicchè la crescita dell’efficienza tecnologica e organizzativa delle capacità produttive non trova più sbocco a causa della crescente proletarizzazione o depauperamento delle cosiddette masse lavoratrici.
Di qui la prosecuzione dell’analisi marxiana a livello finanziario – sempre in termini di concentrazione e tendenza alla crisi ed al collasso – dei teorici della “fase suprema” del capitalismo o imperialismo (espansione anche coloniale alla ricerca di modalità di valorizzazione del capitale stesso) ad opera di studiosi come Hilferding e la sua scuola.
Probabilmente per tali ragioni, pur dedicando moltissima parte del loro lavoro intellettuale alla tematica monetaria, i marxiani e lo stesso Marx non arrivano mai ad un’elaborazione originale in materia. La loro analisi, in effetti, non modifica, ma invece mutua ed elabora principi, concetti e paradigmi del mondo bancario e dell’alta finanza.
Forse per l’abbondanza di oro a copertura del rublo l’Unione Sovietica accettò un principio di convertibilità che sarebbe stato tutto l’opposto di una concezione egualitaria, produttivistica ed anticapitalistica della moneta in genere e della società nello specifico.
Sebbene per Marx solo il ritorno alla centralità della produzione avrebbe concretizzato un sistema nuovo effettivamente alternativo al capitalismo in termini di una sana progressione della dinamica storica, tuttavia il nesso tra un tale passaggio e la rivisitazione della funzione della moneta non appare chiaro. La moneta di Marx è quella in cui si realizzano i profitti e con cui si pagano i salari; e così come Marx non vede un capitalista salariato (condannando le piccole imprese alla scomparsa –almeno politica – e, addirittura, al “non senso”), non può considerare l’unica riforma del capitalismo che abbia storicamente funzionato, quella che ha trasformato i salariati in percettori di profitto. E’ stato solo così, infatti, che fu superata la crisi del 1929: con la partecipazione della classe operaia alla spartizione dei profitti di guerra…
Ma un capitalismo con spartizione del profitto a favore dei lavoratori (e, quindi, sottrazione ai proprietari del potere di decidere la gran parte degli investimenti, sostanzialmente espropriati dai lavoranti e dalla tassazione), può ancora dirsi un capitalismo? Marx si era posto una domanda del tutto simile affrontando la vergognosa questione degli operai inglesi del suo tempo: dopo l’acuta analisi di Engels (“La condizione della classe operaia in Inghilterra”), era successo che la parte più attiva del movimento rivoluzionario di fine Ottocento era risultata costituita da quelle aristocrazie operaie capaci di ottenere ben più di un normale salario grazie al connubio tra la loro professionalità e l’organizzazione sindacale.
E, quindi, non dev’essere stato un caso se – dopo la fantastica epopea di riforme degli anni ’30, ’40, ’50, ’60 e ’70 - il superamento di quel “non-capitalismo” emerso dalle ceneri del 1929 e paradossalmente previsto dallo stesso Marx (sebbene nell’ambito di un progetto politico del tutto diverso), iniziò proprio con l’attacco sferrato contro le Unions dei ben pagati lavoratori inglesi da parte della signora M. Tathcher.
Nel contesto degli anni ’80 e ’90, dunque, la sinistra non ha saputo far di meglio che rafforzare il “capitalismo operaio”: negli USA concentrando un potere immenso nei fondi pensione, adatti soprattutto a cannibalizzare gli operai giovani allo scopo di mantenere elevati a qualsiasi costo i rendimenti delle obbligazioni (e, quindi i tassi di interesse) durante gli ’80, e quelli azionari nel decennio successivo.
Noi economisti, infatti, ci chiedevamo – dopo la caduta dei tassi di interesse alla fine del 1992 – come mai non si riprendessero i livelli dell’occupazione. E la risposta stava lì, davanti ai nostri occhi: pur di ottenere dalle azioni lo stesso rendimento netto delle vecchie obbligazioni, i nuovi proprietari di maggioranza (vale a dire proprio i fondi pensione e, in genere, i cosiddetti investitori istituzionali tanto cari alla sinistra) imponevano al management non strategie di massimizzazione del profitto, ma, al contrario del saggio di esso, a costo di ridurre la base produttiva, ovviamente di più di quanto non si riducesse l’out put.
E Marx non aveva forse previsto nel terzo libro del Capitale che il capitalismo sarebbe finito ed avrebbe esaurito la sua funzione storica quando il saggio del profitto fosse caduto a zero? E ciò non accadde, forse, all’indomani della crisi del 1929, vale a dire diversi decenni dopo la sua morte fisica? E non sta oggi accadendo di nuovo, se guardiamo alla gran parte della produzione mondiale che è ancora costituita da un’agricoltura arretrata, una manifattura moderna solo nel 20% del totale, servizi scadenti, tecnologie energetiche e delle costruzioni poco innovate rispetto ad un secolo fa?
Quindi, la sinistra, per vincere, avrebbe dovuto volere e proporre tutte quelle misure capaci di ridurre il saggio del profitto…ad esempio sostenendo la crescita del profitto (sociale) totale a scapito dei proprietari e degli azionisti; invece, la sinistra ha fatto tutto il contrario: ha colpito lo sviluppo con le demenziali derive “neo-malthusiane” mascherate di ecologismo da parata ed ha sostenuto la componente proprietaria più pericolosa (ai fini sociali), vale a dire i grandi investitori, i fondi pensione, i cosiddetti investitori istituzionali. Ha bypassato gli Stati nazionali, ha subito il disegno strategico dei poteri forti della finanza internazionale. E lo stesso Marx è stato rinnegato e sbeffeggiato.
Per Marx, infatti, il superamento del capitalismo sarebbe avvenuto quando la contraddizione delle forze produttive con l’organizzazione sociale dell’economia non sarebbe stata più sopportabile e lo sviluppo della tecnologia avrebbe consentito la piena soddisfazione dei bisogni – almeno di quelli materiali – per tutta la popolazione.
Dopo gli anni ’70, l’obiettivo di una crescita economica complessiva è stato abbandonato per dar spazio a teorie di limitazione dello sviluppo stesso e, quindi, di concentrazione della ricchezza dove era possibile. Di qui l’aumento dei conflitti, ma anche l’obsolescenza di una sinistra che non ha saputo più opporre alla destra un progetto compiuto che avesse, nella giustizia sociale, il suo cardine principale.
La artificiosa rarefazione della moneta è funzionale ad un progetto sociale di selezione predeterminata e, quindi, di conservazione: se ciò è esatto, tutte le forze politiche sono accomunate da un tale progetto e stanno difendendo un sistema che – chiaramente – sta morendo da solo. Purtroppo, all’orizzonte non appare alcuna proposta non isolata capace di presagire il nuovo.
Gli scienziati ci stanno dimostrando come la Terra stia cambiando, tutto il sistema solare si sta riscaldando, il mare sta generando numerosissime specie nuove (nel solo artico si parla di 20 nuove specie all’anno!) mentre vecchie forme di vita stanno, notoriamente, scomparendo.
Anche della moneta continueremo a parlare e, credo, di politica e della madre natura.
Il contributo di Marco, come ho già sostenuto, mi sembra vada nella direzione giusta: l’inizio di un movimento di studiosi, di intellettuali, di persone che, sempre più consapevoli del cambiamento in corso, dovranno dare un seguito al progredire della Vita e della storia. O a qualcosa del genere.
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