domenica 5 giugno 2011

Signoraggio: Draghi e banchieri si contendono l'oro

Il Foglio,

Draghi e banchieri si contendono l'oro di Bankitalia

Gli istituti di credito replicano agli inviti a ricapitalizzarsi chiedendo di "valorizzare" le loro quote in Palazzo Koch

Assalto a Fort Koch, tutti a caccia dell’oro della Banca d’Italia. Ci avevano già provato le associazioni dei consumatori, riproponendo la vecchia ricetta di vendere i lingotti per dare respiro ai conti dello stato attraverso il fondo di ammortamento del debito pubblico. Ancor prima l’idea era stata infatti accarezzata dal governo di Romano Prodi, mentre in molti ricordano lo scontro Tremonti-Draghi sul progetto di Palazzo Chigi di tassare le plusvalenze sull’oro. Era l’estate 2009 e il decreto anticrisi prevedeva un’imposta una tantum da 300 milioni sulle disponibilità auree della Banca d’Italia. Il dissidio tra il ministro dell’Economia e il governatore fu durissimo, con il primo che declamò: “Le riserve auree appartengono agli italiani e non a via Nazionale”. Poi toccò al premier Berlusconi mediare sulla “golden tax” di fronte alle proteste di Palazzo Koch e della stessa Banca centrale europea, che considerava il provvedimento una violazione dell’indipendenza di Bankitalia. La norma fu quindi riscritta e si decise che il prelievo poteva essere applicato solo “previo parere non ostativo della Banca centrale europea” e comunque attraverso un decreto non regolamentare del ministero dell’Economia, “su conforme parere della Banca d’Italia”.

Adesso, secondo quanto riportato ieri dal Financial Times, sono le banche italiane che puntano all’oro di Draghi per rafforzare i propri patrimoni. In qualità di azionisti della Banca d’Italia, gli istituti starebbero facendo pressione affinché la loro quota venga valutata sul mercato. In questo modo le riserve auree di via Nazionale e il prezzo in ascesa del metallo giallo farebbero schizzare al rialzo il loro livello patrimoniale consentendo di soddisfare i più stringenti requisiti di Basilea III, senza imporre esosi aumenti di capitale ai soci (soprattutto alle fondazioni). Una proposta simile era stata peraltro avanzata il 29 maggio 2009 da Enrico Salza, all’epoca presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo: “Le banche partecipanti al capitale della Banca d’Italia, a fronte della cessione delle quote possedute, potrebbero destinare parte dei proventi così ottenuti alla sottoscrizione di strumenti di capitalizzazione utili ai fini di Vigilanza emessi dalle altre banche non titolari di quote”, aveva detto. Il valore nominale del capitale della Banca d’Italia è di appena 156 mila euro, diviso in 300 mila azioni. Operando il mark-to-market delle quote e tenendo quindi conto dell’aumento esponenziale dei prezzi dell’oro, il valore dell’istituto centrale potrebbe crescere fino a 30 miliardi. Se fosse così, i maggiori beneficiari potrebbero essere Intesa Sanpaolo e Unicredit che detengono quote rispettivamente pari al 44 per cento e al 22 per cento di Bankitalia. Nella top ten dei soci ci sono anche le Generali con il 6,3 per cento, Carige con il 4 per cento, Bnl con il 2,8 per cento, Mps con il 2,5 per cento e Cariparma con il 2 per cento. Al 31 dicembre 2010, si parla di 118,939 miliardi di riserve ufficiali stipate nella cassaforte della Banca centrale, di cui 83,197 miliardi in oro e 26,701 in valuta.

Come spiega al Foglio Francesco Forte, già ministro delle Finanze negli anni Ottanta, “la valorizzazione dell’oro della Banca di Italia riguarda un patrimonio congelato in una struttura para-pubblica. Si tratta d’un capitolo della privatizzazione del patrimonio pubblico che può assumere varie forme. Per fare un esempio, il demanio può essere valorizzato con la cessione di diritti reali d’uso. In questo caso le banche azioniste potrebbero valutare l’oro coi criteri contabili Ias, a valori di mercato, anziché di libro di Banca d’Italia. Ciò permetterebbe di mantenere tale oro presso la banca centrale mentre lo stesso funge da riserva patrimoniale degli azionisti, che in caso di necessità potrebbero liquidarla cedendo una parte delle loro azioni a Palazzo Koch. La rivalutazione genere rebbe per le banche una plusvalenza di 30 miliardi tassabile come profitto aziendale in Ires e Irap per circa il 31,5 per cento, ovvero 10 miliardi, pari allo 0,6 per cento del pil. L’onere fiscale – conclude Forte – potrebbe essere rateizzato in tre anni accelerando la discesa del raporto deficit/pil verso il pareggio nel 2014”. Lo scetticismo di Palazzo Koch La posizione di Banca d’Italia, secondo il Financial Times, è comunque di forte scetticismo. Forse anche perché le riserve nazionali sono parte integrante di quelle dell’Eurosistema e il loro livello complessivo contribuisce alla salvaguardia della credibilità del Sistema europeo delle banche centrali. Bankitalia, inoltre, gestisce una parte delle riserve conferite alla stessa Bce secondo le linee guida decise dal Consiglio direttivo di Francoforte. Insomma, a via Nazionale non hanno le mani libere.

L’operazione va infine vista in relazione all’assetto azionario dell’istituto, come spiega al Foglio l’economista della Cattolica, Alberto Quadrio Curzio: “La legge 262 del 2005, con cui ha preso avvio la riforma dello statuto della Banca approvato dall’assemblea generale il 28 novembre 2006, ha stabilito una ridefinizione dell’assetto proprietario con un regolamento da adottare entro il 31 dicembre 2008. Questa scadenza non è stata rispettata e quindi nulla è cambiato”. Quadrio Curzio aggiunge un consiglio: “La soluzione del problema proprietario si può intersecare con quello di ripatrimonializzare gli istituti italiani, sia per riallineare le stesse alle banche di altri paesi dell’Unione che hanno fruito di ampi interventi dello stato, sia per facilitare l’erogazione del credito”. L’operazione non è semplice: “Si tratta di un misto di questioni fiscali e finanziarie, economiche e societarie, pubbliche e private, italiane ed europee. Per questo ritengo che il tema vada affrontato a livello europeo”.

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