martedì 19 ottobre 2010

Una crisi economica devastante e senza uscita

Una crisi economica devastante e senza uscita
di Filippo Ghira - 19/10/2010

Fonte: Rinascita

http://www.rinascita.eu/mktumb640.php?image=1287418083.jpg


L’economia mondiale sembra ormai avviata verso l’annunciato disastro. Troppo alti infatti sono i debiti che i vari Paesi hanno gli uni nei confronti degli altri, troppo alti sono i debiti che gravano sui bilanci degli Stati. Troppo alto è il livello crescente di povertà delle classi medie nei Paesi della cosiddetta economia avanzata, europea ed americana, quelle che secondo una consolidata teoria rappresentano il cuore della domanda di beni. Cosa si può comprare infatti se non ci sono i soldi?
Altrettanto alto è il numero di poveri senza prospettive costretti ad ammassarsi nelle periferie delle grandi metropoli. Un fenomeno che interessa sia i Paesi più sviluppati che quelli in crescita. Le conseguenza principali della globalizzazione dell’economia sono state infatti da un lato il massiccio trasferimento di ricchezza reale dai settori a reddito fisso (lavoro dipendente e pensionati) ai settori industriale e soprattutto a quello finanziario. Dall’altro, l’esportazione della povertà da un Paese all’altro, in termini mai conosciuti prima. Paradossalmente, seppure con un secolo di ritardo, si sta quindi verificando la previsione fatta da Marx sul realizzarsi delle condizioni economiche e sociali da lui ritenute funzionali al passaggio ad una società comunista, nata da una rivolta globale ad opera di quanti non hanno nulla da perdere perché nulla possiedono. Condizioni che con l’avvento dell’economia mista e di Stati dotati di ammortizzatori sociali sembravano essere state definitivamente messe nell’angolo. La crisi economica scoppiata tre anni fa ha però rimesso tutto in discussione e ha creato una povertà di massa in termini che non si erano mai visti prima. Oggi come allora, ad una svolta rivoluzionaria manca però l’elemento fondamentale. La presenza cioè di una avanguardia rivoluzionaria che sia in grado di convogliare questo disagio sociale dentro ad una prospettiva politica. Peraltro, sempre nei Paesi più industrializzati, la globalizzazione e la fine delle ideologie hanno cancellato l’humus culturale necessario al formarsi di una coscienza rivoluzionaria che possa mobilitare le masse sempre più impoverite e quanti sono stati espulsi dal mondo del lavoro con la prospettiva di non potervi più rientrare. Sia perché non ci sono più posti disponibili sia perché si è sprovvisti della richiesta preparazione tecnica e professionale. Sia perché i potenziali datori di lavoro prteferiscono ricorrere ai diseredati provenienti dal Terzo Mondo, disposti anche ad accettare un salario da fame pur di lavorare.
Si tratta di una nuova povertà che soprattutto nei Paesi più industrializzati del cosiddetto Occidente minaccia di essere senza ritorno perché la concorrenza che viene da realtà emergenti o più che affermate che si affacciano con forza sui nostri mercati, come Cina e India, non può essere più contrastata visto che, per rimanere al caso italiano, dopo aver spazzato via le aziende che operano in un settore un tempo florido come il tessile, sta invadendo ora i settori a tecnologia avanzata. Gli stessi nei quali, secondo quanto ci consigliano i tecnocrati della Commissione europea, del Fondo Monetario e della Banca mondiale, dovremmo investire puntando sull’innovazione. Ma quei due Paesi possono ormai contare su risorse finanziarie decisamente superiori alle nostre e su un capitale umano smisurato, costituito di persone affamate di conoscenza e desiderose di crescere nel loro status sociale. Nella crisi economica che colpisce l’Occidente e di cui la Cina pare non risentire c’è anche un fattore psicologico. L’Occidente è stanco e gli imprenditori che ancora resistono danno l’idea di considerare ormai più che “maturo” il loro settore di attività e quindi sull’orlo del declino. E’ un po’ anche il vecchio discorso in chiave “schumpeteriana” delle difficoltà che incontrano le generazioni che prendono progressivamente il posto di quella precedente che aveva fondato l’azienda, grazie ad una idea o ad una innovazione nei processi produttivi o nel prodotto. La devastante crisi in atto ha fatto sorgere in molti imprenditori di terza generazione l’interrogativo se valga ancora la pena di investire e rischiare di proprio in una fase storica di declino e dalla quale non ci sono grandi speranze di poter uscire nel breve termine. In particolare una fase nella quale saranno necessari capitali sempre più crescenti. Assistiamo così al caso di un gruppo “storico” come la Fiat che dopo aver incassato per più di un secolo una quantità abnorme di finanziamenti agevolati e a fondo perduto dallo Stato che aveva impedito ai concorrenti esteri di affacciarsi in Italia, non trova di meglio oggi che chiudere gli stabilimenti nazionali e andare a produrre all’estero, come in Serbia e Turchia, dove il costo del lavoro è 5-6 volte inferiore a quello italiano. Il caso della Fiat è comunque sintomatico della crisi del modello “occidentale” di fronte alla concorrenza che viene dai Paesi emergenti. Un’azienda che da anni non produce modelli innovativi capaci di affermarsi su tutti i mercati internazionali. Un’azienda i cui principali azionisti, gli Agnelli-Elkann, non hanno più alcuna voglia di occuparsi dell’auto. Un settore nel quale per emergere vi è la necessità di investire troppi capitali e fare innovazione nel processi produttivi e nel prodotto offerto. Soldi che la quinta generazione della ex Famiglia più ricca d’Italia non ha alcuna voglia di sborsare. Schumpeter fa quindi irruzione con forza al Lingotto dove gli Agnelli-Elkann non vedono l’ora di far nascere il nuovo gruppo Fiat-Chrysler con stabilimenti in tutto il mondo, l’uno intercambiabile con l’altro. Un gruppo nel quale la loro quota azionaria sarà molto minore dell’attuale 30% detenuto in Fiat e che consentirà di tirarsi progressivamente fuori dall’auto e dedicarsi ad attività meno impegnative. L’eventuale addio della Fiat all’Italia che deriverebbe da tale tendenza diventerebbe paradigmatico della deindustrializzazione del nostro Paese che rischia di trasformarsi, suo malgrado, in un semplice mercato di assorbimento di beni prodotti altrove.
I governi da parte loro appaiono impotenti e peggio. Lo ha dimostrato chiaramente la risposta che hanno dato per cercare di attenuare le conseguenze della crisi scatenata alla fine del 2007. Invece di cercare di sostenere le piccole imprese e i cittadini trovatisi in serie difficoltà per colpe non loro, i politici occidentali, Barack Obama in testa, non hanno trovato migliore soluzione che versare una montagna di miliardi alle banche per impedirne il fallimento. Le stesse banche che avevano speculato innescando il caos di tre anni fa e che proprio grazie ai prestiti statali sono state in grado di rimettersi in sesto, ricominciare a speculare e a macinare utili. E’ significativo che una delle banche che ha maggiormente beneficiato degli aiuti di Obama, sia stata la Goldman Sachs che, guarda caso, aveva finanziato la campagna elettorale del candidato nero o abbronzato che dir si voglia. Una conferma che a dettare i tempi dell’economia mondiale resta sempre la finanza. E poco importa ricordare che la Goldman Sachs, banca per la quale hanno lavorato Romano Prodi e Mario Draghi, nell’immaginario del cittadino medio americano rappresenti l’archetipo dei pescecani della Borsa. Eppure era stato proprio l’astio e il risentimento dei cittadini verso le banche di Wall Street, considerate vicine ai repubblicani, a favorire la vittoria di Obama e dei democratici nel novembre 2008.
Come era prevedibile, considerato che gli interventi dei tecnocrati di Obama erano diretti più alla economia finanziaria (banche, società finanziarie ed assicurative) che a quella reale (cittadini e imprese) la crisi negli Stati Uniti sta subendo una nuova impennata. Il numero delle case pignorate, per l’impossibilità dei cittadini, privi di un lavoro e di uno stipendio, di pagare le rate del mutuo, sta crescendo in maniera esponenziale e le banche temono un nuovo terremoto finanziario che affondi i loro conti come successo nel 2007-2008 con il crollo del mercato dei mutui subprime e di Fannie Mae e Freddie Mac, i due colossi del settore. A fine anno le famiglie senza casa saranno un milione in più rispetto a dicembre 2009. E non è un fenomeno da poco perché si tratta come minimo di tre milioni di persone coinvolte e sprofondate in nuova povertà e con poche o inesistenti possibilità di rifarsi perché il prezzo delle case pignorate nel frattempo è salito per il desiderio delle banche di rientrare delle perdite subite. E torniamo così alla questione iniziale, quella dell’impoverimento della classe media alla quale, in America e in Europa, non si presenta nemmeno una opzione politica alternativa, una opzione di “Sinistra”. Oggi i partiti che si definiscono di “Sinistra” danno l’idea di voler scavalcare a destra i partiti di centro o di destra, auspicando due elementi, come più Libero Mercato e più Concorrenza, come soluzione a tutte le difficoltà, proprio nella fase in cui essi hanno dimostrato la loro aleatorietà e la tendenza invece a peggiorare le cose e diffondere più povertà.

1 commento:

  1. Bell'articolo ma un po' troppo pessimista. Spero che l'aumentare della povertà e della disoccupazione strapperà un numero sempre crescente di persone all'imbarbarimento culturale attuale.

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