martedì 27 luglio 2010

Verdini si dimette dalla sua banca

Verdini si dimette dalla sua banca

ROMA

Si è difeso per oltre nove ore negando «in radice la partecipazione ad associazioni a delinquere o segrete» e respingendo punto su punto gli addebiti dei magistrati. Denis Verdini, il coordinatore nazionale del Pdl, che ieri si è dimesso da presidente del Credito cooperativo fiorentino (Ccf) perché indagato nell'inchiesta sulla cosiddetta P3, ha risposto a tutte le domande del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e del sostituto Rodolfo Sabelli. Un interrogatorio fiume durato quasi nove ore: dalle tre del pomeriggio a mezzanotte. Alla fine, davanti ai microfoni delle tv, Verdini ne ha per tutti. A partire dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, che ne aveva chiesto le dimissioni. «Una richiesta largamente impropria – ha replicato l'esponente del Pdl – perché io al momento sono solo indagato. Conosce Fini il mio procedimento e le risposte che ho dato ai magistrati? Non ho nessun motivo per dare le dimissioni. Dico a Fini che bisognerebbe essere coerenti con se stessi e con chi abbiamo intorno. Meno male che c'è Berlusconi».
Durante l'interrogatorio Verdini, assistito dagli avvocati Franco Coppi e Marco Rocchi, ha fornito spiegazioni su tutti i punti a lui contestati «in modo puntiglioso», hanno sottolineato i legali. A partire dai 2,6 milioni versati a Verdini, alla moglie Simonetta Fossombroni e a Massimo Parisi, coordinatore del Pdl toscano, tramite dal Società Toscana Edizioni (Ste), di cui l'esponente politico è socio. Operazione su cui gli inquirenti vogliono vedere chiaro, tanto da avere disposto accertamenti su tutti i conti aperti da Verdini presso Unicredit dal 2004 in poi. «È una vicenda che risale al 2004 – ha detto Coppi – che aveva una sua logica. Quanto ai rapporti con Carboni, Verdini ha dato spiegazioni riscontrabili puntualmente nella documentazione bancaria». Il riferimento sono i pagamenti per 800mila euro effettuati tra giugno e dicembre 2009 alla Ste, tramite il Ccf, da Antonella Pau e Giuseppe Tomassetti, rispettivamente compagna e autista di Carboni, entrambi indagati. Sulla nomina di Ignazio Farris a direttore dell'Arpa Sardegna, l'agenzia incaricata di dare le licenze per l'eolico in Sardegna, Verdini ha smentito di avere sollecitato lui la nomina, come riferito ai pm dal governatore sardo Ugo Cappellacci. Quanto alle cene a palazzo Pecci Blunt, la casa di Verdini, che per i pm sarebbero servite a concordare gli interventi sulla Consulta per il lodo Alfano, l'esponente del Pdl ha minimizzato.

La giornata più lunga di Verdini era iniziata con le dimissioni «irrevocabili» dalla presidenza del Ccf (incarico che ricopriva dal 1991) rassegnate venerdì ma di cui si è avuto notizia solo ieri. Dimissioni a cui sono seguite anche quelle di tutto il cda della banca, in segno di solidarietà al coordinatore del Pdl. «In questi mesi – scrive nella lettera di dimissioni Verdini – si è abbattuta sulla mia persona e, indirettamente, sul Credito cooperativo fiorentino, una tempesta mediatica e giudiziaria di ampie proporzioni rese certamente più eclatanti dal ruolo politico che rivesto. Sono assolutamente certo di poter dimostrare la mia estraneità da ogni illecito. Tuttavia devo prendere atto che la rilevanza assunta dai fatti che mi vengono imputati rischia di gettare un ombra sulla banca». Il cda del Ccf dovrebbe restare in carica per l'ordinaria amministrazione, ma non è escluso che la Banca d'Italia possa commissariare l'istituto.
Nel frattempo le disavventure giudiziarie di Verdini si sono arricchite di un nuovo capitolo. Ieri è emerso che i pm di Firenze, che già lo avevano indagato per corruzione nell'inchiesta sulla Scuola marescialli (poi passata a Roma), gli hanno contestato anche il reato di mendacio bancario. Secondo gli inquirenti le ragioni di credito presentate dalla Baldassini Tognozzi Pontello (Btp) di Riccardo Fusi (anch'egli indagato per corruzione) al Credito cooperativo sarebbero basate su documenti non veritieri.
Ieri il tribunale del riesame ha reso note le 65 pagine di motivazioni con cui ha respinto le richieste di scarcerazione di Carboni, Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi. Per i giudici l'organizzazione segreta «era ed è in grado di interferire sulle scelte delle istituzioni». Da qui la necessità di evitare la reiterazione del reato.

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