La crisi finanziaria sta accartocciando le nostre economie. Esportazioni in caduta libera, licenziamenti selvaggi, investimenti in picchiata, sfratti esecutivi per milioni di famiglie e deficit pubblici impazziti (che pompano verso l’alto il debito pubblico) sono solo alcuni degli effetti disastrosi dell’attuale crisi economica mondiale.

Sebbene l’attenzione dei media sia tutta concentrata sulla strada molto accidentata che dovrebbe portarci al “risanamento”, le montagne russe dell’economia mondiale hanno finalmente innescato un dibattito che mette in discussione la sostenibilità del nostro attuale modello di sviluppo fondato sulla crescita economica infinita. Tale critica non è soltanto basata sull’instabilità endemica delle dinamiche di mercato (di cui ormai vediamo gli effetti in tutti i settori), ma anche e soprattutto sull’impatto che questo modello economico ha sulle risorse limitate del pianeta e sul nostro benessere reale. Ma la nostra qualità della vita migliora davvero quando l’economia cresce del 2 o 3%? Possiamo davvero sacrificare il nostro ecosistema (con l’inevitabile conseguenza di distruggere noi stessi) per mantenere intatto un modello caratterizzato da squilibri e contraddizioni?

Per la prima volta da quando è stato inventato negli anni ‘40, il prodotto interno lordo (PIL) - ovvero l’icona popolare della crescita economica - è sotto accusa da parte di organismi internazionali e studiosi. Non sono più soltanto ONG come Sbilanciamoci, New Economics Foundation o il Movimento per la Decrescita Felice a sferrare l’attacco, ma anche tradizionali bastioni di ispirazione liberale. Persino l’Economist, un difensore del libero mercato, recentemente ha ospitato un dibattito sull’utilità del PIL concludendo che “si tratta di un pessimo indicatore per la misurazione del benessere” (http://www.economist.com/debate/days/view/503#mod_module). Anche l’OCSE, un altro colosso del tradizionalismo economico, ha cominciato a gettare dubbi sul dogma della crescita economica. Sul sito web dell’organizzazione intergovernativa, che raccoglie le economie più “sviluppate” del pianeta, si legge: “Per una buona parte del ventesimo secolo si è dato per scontato che la crescita economica fosse sinonimo di progresso, cioè, che un aumento del PIL significasse una vita migliore per tutti. Ma ora il mondo comincia a riconoscere che non è così semplice. Nonostante livelli sostenuti di crescita economica, non siamo più soddisfatti della nostra vita (e tanto meno più felici) di cinquant’anni fa” (http://www.oecd.org/pages/0,3417,en_40033426_40033828_1_1_1_1_1,00.html).

Questo dibattito ha cominciato (finalmente) a fare breccia nell’arena politica europea. Nel novembre 2007, l’Unione europea ha promosso una conferenza dal titolo ‘Al di là del PIL’ e, due anni più tardi, la Commissione ha emesso una direttiva su “Oltre il PIL: misurare il progresso in un mondo in cambiamento”, dove si sostiene che il PIL è stato scorrettamente utilizzato come un indicatore “generale dello sviluppo sociale e del progresso”, ma siccome non misura la sostenibilità ambientale e l’inclusione sociale, “occorre tenere conto di questi limiti quando se ne fa uso nelle analisi o nei dibattiti politici”. Secondo la Commissione Ue “il PIL non può costituire la chiave di lettura di tutte le questioni oggetto di dibattito pubblico”.

Alla fine dell’anno scorso, la Commissione sul progresso sociale creata dal presidente francese Nicholas Sarkozy e guidata dai premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen ha sottolineato con forza l’inadeguatezza del PIL come misura del benessere sociale. Nel rapporto finale, la Commissione ricorda che il “PIL è una mera misura della produttività di un mercato, sebbene sia stata utilizzata come una misura di benessere economico. Questo ha comportato una confusione enorme nell’analisi di come vivono davvero le persone ed ha portato all’adozione di politiche sbagliate” (http://www.policyinnovations.org/ideas/innovations/data/000144/_res/id=sa_File1/economicperformancecommissionreport.pdf).

Pochi giorni fa, il New York Times ha pubblicato sul suo magazine un lungo articolo dal titolo “L’ascesa e la caduta del PIL”, in cui si passano in rassegna i progetti di revisione dei sistemi statistici nazionali per introdurre misure correttive o sostitutive del prodotto interno lordo (http://www.nytimes.com/2010/05/16/magazine/16GDP-t.html?th&emc=th).

Questi sviluppi recenti traggono la loro origine da una branca importante della ricerca economica che ha ormai dimostrato come la qualità della vita e il progresso sociale siano indipendenti dalla crescita economica. In molti casi, proprio i paesi che vantano una crescita economica sostenuta sono quelli in cui il benessere dei cittadini è più a rischio. Eppure, immancabilmente a ogni tornata elettorale, i nostri politici continuano a riempirsi la bocca di promesse su come far crescere il paese. La crescita economica è parte integrante dei programmi di tutti i partiti politici e, nei dibattiti televisivi, non c’è candidato che faccia un discorso alternativo: un discorso informato sui fatti, in grado almeno di recepire il dibattito in corso a livello globale. Per quanto tempo ancora continueremo a farci prendere per il PIL?

* Lorenzo Fioramonti è visiting professor all’Università di Heidelberg (Germania) e capo ricercatore della società di consulenza Beyond Development-Dopo lo Sviluppo Srl (http://www.be-dev.com/). Una versione sintetica di quest’ articolo è stata pubblicata sull’edizione internazionale del New York Times il 12 Maggio 2010 (http://www.nytimes.com/2010/05/12/opinion/12iht-edlet.html?scp=1&sq=fioramonti&st=cse).