venerdì 26 febbraio 2010

Fine della finanza

Fine della finanza, forse che sì forse che no…


euroUn’impresa di grande distribuzione che vende sottocosto e fa utili con impieghi a breve della liquidità in eccesso generata dalle asimmetrie di pagamento è economia reale o no?
Un’impresa metalmeccanica che stipula un contratto di leasing per un macchinario, è economia reale o no?
Un’impresa della navalmeccanica che stipula un contratto di opzione per un piano di fornitura di acciaio, è economia reale o no?
Tre situazioni banalissime che fanno parte della più trita quotidianità di un’impresa, anche minuscola, per smontare una volta di più il famoso mito dell’”economia reale”. Nozione che semplicemente non esiste perché non è concretamente definibile. Pazienza, dirà il lettore, per l’uomo della strada l’approssimazione fa parte del gioco (e io risponderei: certo, perché tanto comanda chi ha le informazioni vere!), tuttavia su un libro di economia scritto da due docenti della Bocconi una svista del genere fa venire i capelli dritti. Leggetevi “Fine della finanza” (Donzelli, € 27,00 pp.330), e ne riparleremo, a fortiori perché nella pubblicazione viene adottata una certosina attenzione alle definizioni e alle puntualizzazioni. Ma andiamo oltre, concludo questo “incidente” enunciando per l’ennesima volta che la gestione finanziaria non è nulla di più di uno dei profili tramite i quali si analizza un’impresa, ne consegue che anche la più “reale” delle imprese ha a che fare con la finanza. E se vogliamo parlare dei privati, quanti di noi NON hanno un conto in banca? E quella non è finanza? E se pago col bancomat è economia reale o finanziaria… Suvvia, non scherziamo.
Questo testo, per quanto ricco di riferimenti e ben inserito nella più specialistica letteratura di settore, appare nell’insieme come un modo elegante per dire….Facciamo finta di aver scherzato.
Certo, la crisi batte, il sistema sta collassando, non è sostenibile all’infinito…Ma ci piace pensare che lo sia, in nome di una diuturnitas le cui basi sono tutte da definire, per stessa ammissione degli autori. Insomma tenere i piedi su due staffe è un’operazione che non convince, quand’anche gli autori, prevedendo possibili critiche, nell’introduzione specificano che è un lavoro in qualche modo “transitorio” (p.13). Un puntello di un’impalcatura più ampia. Ce lo auguriamo tutti perché su diverse cose si potrebbe discutere a lungo…Sospendiamo il giudizio in attesa delle prossime puntate.
Sono sempre più convinto che la crisi finanziaria attuale sia solo la conseguenza del grande crollo borsistico del 1987. Già allora erano evidenti i limiti strutturali del sistema, tuttavia il fato e la contingenza hanno sostenuto la finanziarizzazione dell’economia grazie al crollo del Muro di Berlino e del blocco sovietico cui è seguita un’apertura immediata di nuovi mercati che hanno dato ossigeno all’occidente e che, al contempo, hanno contribuito ad ampliare l’offerta di materie prime abbassandone il prezzo. Non è un caso che il periodo d’oro del WTO e delle relative (scellerate) politiche siano gli anni ’90. Su questo scenario si sono inseriti modelli di gestione del rischio assolutamente spregiudicati (sedicenti “rischio 0”) e le conseguenze le abbiamo sotto gli occhi.
Lo sviluppo, o quantomeno la tenuta, degli ultimi venti anni è, a parere di chi scrive, una fortuita e irripetibile coincidenza.
E invece ci sono fior di studiosi che si arrovellano a spiegare come mai il mondo è andato a cacciarsi in uno dei più bui vicoli ciechi della sua storia… Ma mi sembrano, alla luce di quanto detto, disamine accademiche.
La difesa a oltranza dell’istituto della banca centrale fa, poi, sorridere: il complesso dei fattori (Stato, banca centrale e mercati finanziari) appare “too big to fail” (p.233), troppo grande per fallire. Ergo: tenetevelo (richiamo polemico ad un articolo di Giavazzi citato a p. 21). Non è molto convincente come argomentazione… Sarebbe, più che suicida, omicida…ma verso i banchieri… Nella pagina precedente viene riportata la nota: “questa osservazione ci consente di prendere radicalmente le distanze dal discorso diffuso in certi ambienti (in fin dei conti si parla solo del Nobel Maurice Allais, evidentemente uno di cui proprio non ci si può fidare…ndr), secondo cui il signoraggio della banca centrale sarebbe un esproprio ai danni del “popolo”. Il problema non è il signoraggio, ma il modo in cui esso opera”. La chiusa è giustissima… E la parte precedente suona tanto come una “excusatio non petita, accusatio manifesta”. Honi soit qui mal y pense… Potremmo dire, ma gli autori dichiarano « così, con il volonteroso consenso dei paesi industrializzati, gli Stati Uniti conservano la facoltà di esercitare il signoraggio su scala globale, anche quando viene meno il principio di responsabilità in ragione del quale tale facoltà era stata originariamente accordata, ossia la convertibilità in oro della moneta americana » (p. 129), ricordando come, già dal 1971, la quantità di dollari in circolazione fosse ottupla rispetto alla loro copertura. Ma c’è di più: gli autori dichiarano che il signoraggio moderno “conferisce” qualcosa alla moneta (p.232), mentre secondo la nozione classica questo “toglie”: la fa valere (da qui la più corretta espressione “validazione monetaria”, che difatti lo scrivente utilizza)… Proprio una quisquilia.
Se poi le banche centrali sono questo concentrato di onestà e buoni sentimenti come dicono gli autori, mi farebbe piacere sapere come mai i loro vertici provengono inderogabilmente dalle “amiche” banche d’affari che hanno generato l’attuale crisi. Tanto per dire l’ultima: la ristrutturazione del debito pubblico greco verrà affidato ad un uomo della “solita” Goldman Sachs…
Parlare poi di “debito costruito per non essere pagato” (p.67) fa impallidire anche le “divergenze parallele” di Aldo Moro! Ma poche righe dopo il lettore troverà “potrebbe venire la tentazione di dichiarare esente dal fallimento anche il mercato”, ma se pagina 29 si parla dell’informazione nel mercato finanziario come “per sua natura asimmetrica e incompleta”? Il mercato è fallito per definizione poiché una delle ipotesi principali su cui si regge ad substantiam è proprio la…perfetta informazione!
Probabilmente ai comuni mortali questi sofismi sono preclusi… Ma allora perché parlare, come diffusamente fanno gli autori, delle immissioni di liquidità nel sistema come una “droga”? Se le banche centrali si divertono con la fotocopiatrice (è una battuta macabra…), per quale strana ragione non può essere lo Stato stesso a divertirsi con la fotocopiatrice? Molto interessante in tal senso l’articolo di Ellen Brown “The Weimar hyperinflation, could it happen again?” del sito www.globalresearch.com tradotto in italiano dalla bella rivista “Indipendenza” (n. 27- novembre/dicembre 2009 www.rivistaindipendenza.org , distribuita anche nel “circuito Feltrinelli”) nel quale si fa un interessante parallelo fra la situazione della Repubblica di Weimar e l’attuale scenario monetario inglese: attuale proprio alla luce delle recenti evoluzioni che hanno messo alle strette il governo Brown ormai pressato fra una tutt’altro che impossibile bancarotta e il disastro sociale di un Paese deindustrializzato, del quale noi stiamo sciaguratamente seguendo la scia, solo con vent’anni di ritardo.

Nel testo si mischiano prestiti di varia natura (Keynes in particolare) con derivazioni più eretiche (cfr.Auriti con il “denaro fattispecie giuridica”), filosofiche e storiche che complessivamente rendono l’opera anche gradevole sotto il profilo storiografico e “rilassante”, lasciando però scoperti snodi concettuali che, a parere di chi scrive, meriterebbero maggiore attenzione.

Alberto Leoncini

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