martedì 13 ottobre 2009

Magistratura: Due Poteri e... un Ordine

Magistratura: Due Poteri e... un Ordine


Marco Managò, Rinascita, 9 Ottobre 2009


L’Italia, paese sconfitto al termine dell’armistizio, del cambio di fronte e del cessare le armi, fu soggetta a una “cura” costituzionale particolare, col beneplacito delle potenze vincitrici, pur di marcare notevolmente la separazione dei poteri e non ricadere in perigliose precedenti concentrazioni.
Lo scontro paventato (e poi notoriamente verificato) fra gli organi dello Stato non è altro che il tentativo (del singolo) di arrecar vantaggio alla personale posizione, rivestendo l’operato di una volontà (spacciata per pubblica) di rispetto dei ruoli e della democrazia. Organi e poteri in presenza di uno Stato oggettivamente privo di effettivo potere decisionale.
E’ innegabile lo storico alternarsi tra l’esigenza di autonomia per i giudici e il tentativo di assoggettarli agli altri poteri; difficile è stato sempre trovare il giusto punto di equilibrio, a fronte di chi puntava i limiti sulla base dell’insegnamento liberale (ove l’esecutivo ancora manteneva la stretta marcatura). Da notare come nello Statuto Albertino, di emanazione sovrana, perdurò una sorta di riconoscenza a questo nuovo “potere” legato alla benevolenza regale.
Arduo dimenticare del resto, nell’intera dimensione europea, il passaggio dall’assolutismo alla sovranità del re temperata da una Camera dei Lords (espressione pura dell’aristocrazia) e quella dei Comuni (del popolo), nonostante l’esperienza rivoluzionaria francese.
Non era radicata, nelle coscienze, nella limitata opinione pubblica e nella volontà dell’esecutivo, la concezione del potere giudiziario.
In verità tale lacuna dottrinale rimase anche in tempi relativamente recenti per la storia italica, in piena fase costituente.
Per chi conosce il noto insegnamento di Montesquieu (il primo a far scuola fu Locke, ma su input dell’oscuro Medioevo!), la separazione dei poteri di uno Stato deve comprendere quello legislativo (Parlamento), esecutivo (Governo) e giudiziario (Magistratura). L’intenzione del filosofo francese, di considerare il potere giudiziario come mera applicazione della legge, cozza, evidentemente, con la realtà attuale.
Tale problema sarebbe effetto inevitabile di una forzatura borghese nel pretendere tale suddivisione, quando il potere, secondo un’ottica propria del comunismo, è preferibile accentrarlo nelle assemblee del popolo, nella pura sovranità popolare.
Altre ipotesi, tra cui quella di ridurre i poteri a due, eliminando le distinzioni ritenute superflue tra governo e magistratura, non hanno trovato seguito e rimangono semplici dispute ideologiche.
L’art. 104 della Costituzione italiana inizia con il seguente principio “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. E’ un particolare tecnico non molto conosciuto né approfondito nell’insegnamento del diritto costituzionale, eppure va rimarcato il termine “ordine”. Il costituente, quindi, ha preferito evitare il lemma “potere” introducendo quello di ordine (di fatto, potere lo è), retrocedendo la magistratura quasi al pari degli altri ordini professionali (a darle maggior lustro è la presidenza, affidata al Presidente della Repubblica).
Protagonista indiscusso della definizione suddetta, in fase di Assemblea Costituente, fu Luigi Preti (politico, giurista e scrittore scomparso pochi mesi fa), all’epoca militante nel Psi.
Va ricordato come il resto del comma parli di indipendenza dagli “altri” e non “dai” poteri dello Stato, quasi riconoscendo, di fatto, quello giudiziario. Per l’autogoverno del potere giurisdizionale si indicò il Consiglio Superiore della Magistratura.
Fu chiaro l’impeto, forse eccessivo, di innovare e stravolgere rispetto all’esperienza politica appena conclusa, tanto che l’innovazione permanente (e molto programmatica) sembra essere uno dei caratteri peculiari e non funzionali della Carta Costituzionale. Una regalia frutto dell’impeto garantista dei “salvatori” dell’Italia, fondata su una mera cavillosità terminologica. Si preferì disconoscere quello che, a tutti gli effetti, si imponeva come legittimo terzo potere e che non tardò a manifestarsi, nonostante le “buone intenzioni”.
La stessa disputa ideologica potrebbe infiltrarsi nel doveroso dibattito riguardante la separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti. Probabilmente qui è parte del nocciolo delle problematiche del settore giudiziario: se si paventa lo spettro delle strane connivenze tra pubblici ministeri e giudici, tali rischi potrebbero però ritrovarsi anche tra elementi della stessa sfera inquirente o giudicante. Fermo restando il principio dell’assoluta imparzialità, il fondamentale problema della separazione potrebbe intendersi non soltanto in relazione alla “formazione”, alla diversa professionalità di investigatore o giudicante.
L’affondo del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, Renato Brunetta, e della sua scure “salvifica”, indirizzato alla magistratura, ha riguardato anche l’introduzione di un badge per quanto riguarda l’attività lavorativa dei magistrati: un elemento che ha raccolto sin dalla sua enunciazione una valanga di consenso popolare.
La mannaia brunettiana investe proprio tutti e il Ministro di Venezia ha provocato un vero terremoto nel coinvolgere la magistratura esprimendosi, in virtù di dipendenti della Pubblica Amministrazione, con le stesse procedure riguardanti le presenze, le ore lavorative, l’aspetto economico. Pochi giorni fa, profittando della presentazione del volume di Stefano Livadiotti (foto) “Magistrati, l’ultracasta” (Bompiani), il Ministro, definendo “mostro” il C.S.M., ha lamentato un orario lavorativo effettivo prossimo alle 4 ore medie quotidiane e ha rilanciato lo sproposito dell’aumento degli stipendi per quasi 190 milioni di euro. Altri dati sciorinati hanno fatto riflettere: 1.292 tribunali in Italia, numericamente superiori a quelli francesi, a quelli inglesi, tedeschi e spagnoli.
Il volume di Livadiotti ricorda come il nostro sistema giudiziario possa contare su 13,7 giudici professionali per ogni 100 mila abitanti quando la Francia ne ha 11,9, la Spagna 10,1 e l’Inghilterra 7.
L’intervento di Brunetta ha destato un coro di polemiche, ha risvegliato quella cenere covata per anni ai bordi di un fuoco semisommerso e ha generato partiti contrapposti; uno schieramento pro-magistrati, sostenuto dall’Associazione Nazionale Magistrati, dal vicepresidente del C.S.M. Mancino e dall’antiberlusconiano verace Antonio Di Pietro, nell’altro fronte i sodali del Ministro, tra cui il Guardasigilli Alfano, sino alla voce impetuosa di Vittorio Pezzato (portavoce del Ministro veneto) che ha tuonato invocando i braccialetti elettronici ai magistrati in luogo di tornelli e badge!
Il volume di Livadiotti, che non disdegna accuse riguardo il reclutamento, gli stipendi, la faziosità, tenendosi ben ligio al titolo, non ha fatto altro che gettare l’ordine giudiziario nel polverone mediatico degli ultimi giorni, supportato dall’onda delle controversie di Feltri, di Fini, di Tarantini, di Berlusconi e delle sentenze a orologeria (ne fu apripista proprio l’uomo di Arcore, a Napoli nel 1994, quando ottenne un avviso di garanzia durante la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata) e delle escort.
Da notare come l’impeto anti-fannulloni di Brunetta sia sopravvissuto indenne al duro attacco dell’Espresso, che scavò in profondità, sino a ricordare l’esordio del futuro Ministro nel mondo dei consulenti (al quale ora non risparmia minacce) e percentuali di presenza a Strasburgo pari a un misero 57,9%.
Le accuse di Livadiotti e c. riguardano anche l’aspetto quantitativo. Arduo valutare in tali termini numerici la consistenza dei magistrati in Italia. Riferendoci ai dati forniti nella Relazione del Ministero sull’Amministrazione della Giustizia per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario 2003, nel 2002 gli 8.283 magistrati in organico (divenuti circa 10.500 l’anno seguente secondo i dati della Ragioneria Generale dello Stato) erano così ripartiti: 7.849 quelli effettivamente presenti negli uffici giudiziari nell’esercizio delle loro funzioni, a loro volta valutati in 5.801 negli uffici giudicanti (a fronte dell’organico di 6.332 posti) e 2.048 negli uffici requirenti (a fronte di un organico di 2.220 posti), infine 434 erano i magistrati presenti negli uffici centrali (a fronte di 481 posti previsti in organico).
Palazzo dei Marescialli, ove ha sede a Roma il C.S.M., guidato dal vicepresidente (di elezione parlamentare) Nicola Mancino, fornisce dati precisi riguardo gli organici.
I magistrati in servizio sono 8.854, si noti la prevalenza degli uomini, 5.070, rispetto alle 3.784 del gentil sesso. A tali dati vanno sottratti i 17 (2 uomini e 15 donne) uditori giudiziari senza funzioni e i 266 magistrati fuori ruolo (186 uomini e 80 donne). Si giunge così a un totale di 8.571 (4.882 u. e 3.689 d.) magistrati in servizio presso gli uffici giudiziari, di cui 6.459, pari al 75,36 % (3.540 u. e 2919 d.) sono giudicanti e 2.112, pari al 24,64 % (1.342 u. e 770 d.) sono requirenti.
Il numero dei magistrati, 10.109, è previsto dalla Legge n. 48 del 2001, modificata con un D.Lgs. del 2006. Per quanto riguarda gli uffici giudiziari, il C.S.M. indica 9.579 posti in organico di cui l’11,11 % (1.064) sono vacanti; la percentuale differisce nel caso si considerino i 7156 giudicanti previsti (738 vacanti, 10,31 %) e i 2.423 requirenti (326 vacanti, 13,45 %). Altro dato interessante concerne il numero dei giudici di pace: 4.690 in organico e 2.822 coperti. A coloro che contestano lo scimmiottamento italico nel realizzare la figura del giudice di pace secondo l’insegnamento anglosassone, va ricordato che tali magistrati non togati (ma onorari), abbiano radicata origine già nel Regno di Napoli.
Poco più di 500, precisamente 523, sono i magistrati in servizio alla Corte dei Conti.
Alle notorie accuse di esondazione nelle proprie funzioni nonché di scarsa aderenza all’imparzialità, sino a determinar esecutivi o a intimorirli, si aggiunge, per l’Ordine, la pecca dei processi cosiddetti “lumaca”, ove i tempi si dilatano a dismisura, per esempio quasi 5 anni in media per gli imprenditori nelle cause civili e 9 anni circa per le procedure fallimentari. In tale quadro si pensi come il 70 % dei processi venga rinviato. Per i giudici di pace i tempi si assestano intorno all’anno. Più preoccupanti i giudizi penali, assestati intorno a 4 anni e spiccioli, quasi 4 e mezzo se si considera anche la Cassazione.
Limitare i tempi, per assicurare al cittadino una sentenza in tempi ragionevoli, senza per questo avviare un’accelerazione nociva per la validità del processo, significa anche arginare, di molto, i circa 10 milioni di euro annui che lo Stato deve risarcire proprio a causa dei processi-lumaca. Tali ritardi, non è un mistero, limitano anche la crescita economica (nonché sociale ed etica) del nostro Stato. Non si dimentichi, inoltre, quanto lo slittamento dei tempi incida indirettamente sull’onorario da corrispondere al proprio avvocato. L’articolo 111 della Costituzione, riformato con la Legge Costituzionale n. 2 del 1999, a difesa del “giusto processo”, ha introdotto 5 nuovi commi, tra cui il secondo che si conclude con un perentorio “la legge ne assicura la ragionevole durata”.
Scade, a volte, nei processi, il termine della custodia cautelare e i media gongolano nei loro servizi, puntando sull’emotività e la rabbia (che genera audience e null’altro), destando la nostra, legittima, sorpresa. Solo di recente, si assiste a una nuova tendenza, in particolare espressa dalle maggiori cariche istituzionali cittadine (per es. Alemanno) che si indignano dinanzi alle facili scarcerazioni e all’operato dei magistrati.
La soluzione, ovviamente, non scorre soltanto attraverso una mera redistribuzione dei compiti e un’accorta assegnazione delle priorità. In tale quadro non è possibile, inoltre l’evitare quella serie di luoghi comuni o di frasi a effetto, quelle iperboli di indulto quotidiano, di prescrizioni che anticipano sentenze, di mancanza di soldi e organico e le miriadi di salutari o mortiferi cavilli.
Gli attacchi di Berlusconi all’A.N.M. non sorprendono più l’opinione pubblica, in quanto da anni il Presidente del Consiglio lamenta una persecuzione giudiziaria non riscontrabile verso il campo politico avverso, palese già ai tempi di “mani pulite”. Tali rimostranze hanno avuto l’effetto informativo desiderato nei riguardi di questa libera associazione nata nel 1944, composta da circa 8000 aderenti. All’interno dell’A.N.M. è importante ricordare il Comitato Direttivo Centrale, al cui interno sono scelti i componenti delle 4 correnti in cui si sostanzia l’Associazione. Attualmente i membri sono 14 per Unicost, Unità per la Costituzione, cosiddetta corrente di “centro” che dal 1981 gode della maggioranza, sono 10 per Magistratura Democratica, quella notoriamente a sinistra, 8 per Magistratura Indipendente, rivale della precedente, 4 del Movimento per la Giustizia, ex costola di sinistra di Unicost. Si tratta di correnti molto influenti perché scelgono gli organi direttivi dell’A.N.M. e i 20 membri del C.S.M. scelti dai magistrati e determinano come (e quanto) debba realizzarsi l’autonomia della Magistratura.
Le accuse dell’esecutivo sono quelle volte a impedire la discrezionalità nonché la valutazione dei giudici sull’applicabilità di una legge (verso la quale, invece, il legislatore ha posto la massima sudditanza, sancendo all’art. 101 Cost. che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”).
A loro difesa, i magistrati, oltre a ricordare le note carenze organiche e le deficienze nelle quali son costretti a muoversi, a volte puntano l’indice sul triste primato e sull’esigenza di veder riconosciuti i loro 27 caduti nell’assolvimento delle funzioni.
Colmi di ricorsi e faldoni sono anche le 20 circoscrizioni dei Tribunali Amministrativi Regionali (T.A.R.), il cui lavoro, sapientemente decentrato, è soggetto all’appello rivolto al Consiglio di Stato, organo, quest’ultimo, al tempo stesso consultivo e giurisdizionale. Sovente i media ci riportano il giudizio finale di Palazzo Spada (C.d.S.) sui ricorsi inerenti la Pubblica Amministrazione.
Veleno, dunque, sulla magistratura, da parte dei poteri concorrenti, il tutto in un turbine di reciproche accuse.
La strumentalizzazione della bagarre sulle invasioni di potere tra gli organi e il relativo marcio denunciato, sembrano, purtroppo, non solo confermare la realtà ma, nel ginepraio delle accuse (spesso becere), creano una subdola distrazione volta a ignorare le reali problematiche del paese. E’ chiaro, infatti, che all’operaio costretto a barricarsi in fabbrica per difendere il proprio posto di lavoro, poco importi della malagiustizia, del governo ingerente e delle accuse reciproche, tanto più di Lodi lontani anni luce dal salario legittimamente richiesto. Lodo Alfano, Mondadori e toghe da “ultracasta”, pur nella loro rilevanza, non debbono oscurare quella rabbia montante e votata a un Autunno bollente.
La decisione della Consulta sull’incostituzionalità del Lodo Alfano non potrà, in ogni caso, non avere strascichi nell’esecutivo.
La stessa reazione di Berlusconi si è espressa in maniera molto decisa nella serata del 7 Ottobre “Siamo assolutamente convinti dell’indispensabilità dell’esser noi qui a salvaguardare l’Italia e gli italiani di fronte a questa sinistra che si è impadronita della Corte Costituzionale e che ha prodotto una sentenza assolutamente politica”. E la rabbia prosegue con il ricordare lo schieramento a sinistra di 11 giudici su 15 della Corte e dello stesso Capo dello Stato, tutto a scapito dell’equilibrio dei poteri e della sovranità popolare.
Impossibile negare gli scandali e i disagi legati agli abusi, ai ritardi e alle carenze strutturali ed economiche. Le diffamazioni, tuttavia, sono ancor più letali in quanto scaturite da quel primigenio (e non secondario nella sostanza), ambiguo disegno costituzionale, che pretese di risolvere il cosiddetto bilanciamento dei poteri attraverso una sterile terminologia, così da rimediare all’accentramento fascista.
“Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana e al suo capo, di osservare lealmente le leggi dello Stato e di adempire con coscienza i doveri inerenti al mio ufficio.” Tale è la formula iniziatica alla quale si sottopone un magistrato.

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