sabato 30 maggio 2009

Londra, la «città globale» che nega la sua crisi

Londra, la «città globale» che nega la sua crisi
di Marco d'Eramo - 30/05/2009

Fonte: Il Manifesto [scheda fonte]



Nella City continuano a circolare i soldi pompati dal governo, sui licenziamenti si stende un velo. Ma si prepara un futuro d'austerità

La crisi? «Qui non si sente molto», dicono in tanti, «il peggio deve ancora arrivare», ribattono altri. Londra, capitale finanziaria di portata mondiale, è convinta di non sentire la recessione. Ma per salvare le banche il governo ha aperto buchi nel bilancio: nel futuro incombono tagli alla spesa pubblica

Un mistero aleggia sulla crisi che devasta l'economia mondiale. In qualunque città ti trovi, quando chiedi quanto grave è la recessione, la risposta che invariabilmente ti senti dare è la seguente: «La crisi è tremenda, feroce, ma in questa città è meno grave che altrove, qui si sente meno». A San Francisco, «la città è piccola e quindi c'è sempre penuria di case che i ricconi asiatici vogliono comunque comprare: le quotazioni immobiliari tengono abbastanza»; a Chicago «la crisi era stata violentissima negli anni '80 e ora si sente meno»; a Las Vegas «c'è un ridimensionamento, ma tutto sommato proprio nei tempi duri la gente ha bisogno di sognare»; a Leeds no, «perché è una città di colletti bianchi con tanto pubblico impiego» (vedi il manifesto del 21 maggio).

«La crisi della città accanto», la potremmo chiamare. «Io stavo per darti la stessa risposta» mi dice Susan Watkins, direttrice della New Left Review, mentre mangiamo un boccone al Blacks, un club di Soho, a pochi passi dalla sede della rivista: il Blacks è ormai inevitabile punto di ritrovo per un nutrito drappello dell'intellighenzia progressista londinese, giornalisti, registi, fotografi, saggisti.
«Infatti» dice Watkins, «tutti i soldi che il governo del New Labour ha pompato nelle banche continuano a girare nella City. Ci sono stati licenziamenti, alcuni esercizi hanno chiuso. Ma è stato in gran parte compensato dal calo della sterlina che ha fatto affluire molti più turisti».

La crisi della città accanto si trasforma spesso nella «crisi della porta accanto»: quante volte ti senti dire: «Io non sono stato colpito personalmente dalla crisi, ma conosco uno che è stato licenziato proprio ieri»? In realtà, qui a Londra, come ovunque, potresti individuare la posizione politica del tuo interlocutore dal suo giudizio sulla gravità della crisi. «Il peggio deve ancora venire» mi dice la sindacalista e attivista Jane Shalice. Siamo seduti nel giardino di Bloomsbury Square in una rara mattinata di sole di questo maggio arcigno, freddino e piovoso: «Per salvare le banche, il governo di Gordon Brown sta scavando una voragine nel bilancio dello stato: per riempirla, il prossimo governo conservatore procederà a tagli pesanti della spesa pubblica e a licenziamenti nel pubblico impiego (qui tutti danno per scontato che alle prossime elezioni vincano i tories di David Cameron, ndr). E allora la crisi sarà durissima. Si fanno tanti paragoni con la Grande Depressione. Ma nel 1929, quando scoppiò la crisi, la disoccupazione non era al 25%. Solo tre anni, dopo, nel 1932, arrivò a questo livello. Gli effetti veri li vedremo fra un paio di anni».

Se per l'estrema sinistra il peggio deve ancora venire, per centristi e conservatori il peggio è ormai alle spalle. «Vi sono due scuole di pensiero», mi dice John Kampfner, già direttore del settimanale New Statesman e ora saggista e manager del sito (e magazine) Index on Censorship (Kampfner ha appena dato alle stampe Libertà in saldo, un libro che si chiede come mai, in tanti paesi, dalla Russia all'Italia, dalla Thailandia alla Gran Bretagna, i cittadini sono pronti a scambiare le proprie libertà e i propri diritti civili in cambio della sicurezza o della promessa di sicurezza). «Per una prima scuola di pensiero la crisi attuale è solo una cunetta nello sviluppo capitalistico, un dosso, brusco quanto si vuole, ma pur sempre solo un'ammaccatura. Per l'altra scuola di pensiero, siamo di fronte a una rottura vera e propria dell'ordine capitalistico. Per il momento non si può dire. Se il Prodotto interno lordo crolla di un 5%, per l'economia nazionale è una catastrofe, ma se tu devi ridurre il tuo livello di vita del 5%, puoi farlo senza risentirne troppo: esci un po' meno, compri un po' meno giornali, accorci un po' le tue vacanze, riduci un po' la qualità dei tuoi vestiti, rimandi alcune spese. Puoi anche ridurre del 10% il livello di vita e non risentirne. Certo, nella finanza e nella pubblicità stanno licenziando, ma il turn over è sempre stato vorticoso: alle dieci del mattino eri alle stelle e alle 17 sei sbattuto fuori. L'altra scuola di pensiero, quella de 'il peggio deve ancora venire' ha dalla sua la prospettiva del governo Tory. Fino a qualche mese fa Cameron era stato abile, aveva evitato il classico discorso conservatore di privatizzazioni selvagge e tagli alla spesa sociale, ma ora comincia a dire che stiamo entrando 'in un'era di austerità': comincia a promettere anche lui 'lacrime e sangue'. Ma anche se il peggio deve ancora venire, non so in che senso si parla di 'discontinuità capitalista'. Non ho mai capito cosa vuol dire l'espressione 'nuovo capitalismo'».
Certo, è sconcertante questo understatement della crisi, per quanto in puro stile anglosassone. È mai possibile che la massima capitale globale della finanza globale non risenta della crisi finanziaria globale? I prezzi delle case sono scesi di un buon 30%, «ma in fondo sono solo tornati ai livelli sempre molto alti del 2006», ti obiettano.

Fino a ieri, il massimo dello chic era fare il pendolare tra New York e Londra, i due centri della finanza mondiale, abitare «NyLon». Il ruolo di Londra e della sua City era stato garantito dalla deregulation finanziaria, dalla sregolatezza che ne aveva fatto «la capitale globale della criminalità globale», secondo un'espressione di Kampfner. Ora i governi parlano di reintrodurre almeno timidi controlli, di tassare almeno un po' i redditi alti: tutto ciò non farà perdere a Londra la sua leadership mondiale in settori chiave della finanza (come per esempio il mercato valutario, l'unica forma di speculazione che ha superato abbastanza indenne la crisi)?

Curiosamente, nessuno qui prende in considerazione neanche la minima possibilità che Londra perda il suo status finanziario. Non si capisce se è ottimismo o è rifiuto dell'evidenza, uno state of denial, come nei tabagisti quando si parla dei danni del fumo. «I motivi fondamentali per cui i russi si sono stabiliti qui rimangono validi anche adesso, dice Kampfner, «anche se il governo Brown si è deciso infine ad aumentare le tasse portandole al 50% per i redditi oltre le 150.000 sterline, mentre finora c'era un'imposizione piatta del 40% per tutti i redditi superiori alle 40.000 sterline annue. Era una misura che i laburisti avrebbero dovuto prendere anni fa, al tempo delle vacche grasse, ma non ne hanno avuto il coraggio anche se era popolarissima. Ora invece i tabloid si scatenano (il London Life titola: 'I boss della City si mettono in fila per evitare la stangata della tassa al 50%'). Il Financial Times lancia l'allarme e minaccia che se davvero ci sarà una nuova regulation finanziaria, 'Nylon sarà soppiantata Shangkong' (Shanghai e Hongkong), ma a me sembra già dell'altroieri lo slogan che si recitava 'Shanghai, Mumbay, Dubai e Goodby'. Non vedo declino: Londra offre un insieme unico di vantaggi: gli oligarchi erano venuti qui per la lingua - l'inglese come tramite universale - , per l'esenzione fiscale sugli stranieri non residenti, soprattutto per le scuole di qualità per i figli». Con chiunque parli, la scelta della scuola è un fattore dirimente dello sviluppo dei quartieri londinesi: le case aumentano di prezzo nelle vicinanze delle buone scuole e si deprezzano intorno ai licei scadenti, mi conferma la preside di una scuola di Brixton: «Secondo le nostre regole, chi abita lontano da una buona scuola non potrà mai sperare d'iscrivervi i propri figli, quindi preferisce trasferirsi vicino a un istituto di qualità perché pensa che l'investimento renda in termini di carriera futura dei figli».

Non vede un declino di Londra neanche Robin Murray, studioso dello sviluppo urbano, consulente di Ken Livingstone quando era presidente della Grande Londra (1980-86) contro la Thatcher, tanto che per farlo fuori la Lady di ferro abolì addirittura la figura istituzionale. Detto «Ken il rosso» perché dissidente di sinistra del Labour, Livingstone è stato poi il primo sindaco di Londra per due mandati, dal 2000 al 2008, prima di essere sconfitto dal candidato conservatore Boris Johnson. «C'è sempre stata una tensione tra l'anima industriale e l'anima finanziaria di Londra. E il New Labour di Tony Blair decise di puntare sulla finanza» mi dice Murray nella cucina della sua casa di Hackney, un quartiere ex industriale ed ex malfamato. «Quattro calcoli mostravano che a Londra i redditi del personale impiegato nel settore finanziario ammontavano a più di 70 miliardi di sterline l'anno, una cifra superiore al Pil di parecchi paesi. Noi volevamo far rivivere l'anima industriale di Londra, ma poi Livingstone si convinse che forse avevamo sbagliato a non favorire la finanza».

Tento un'ultima volta di ottenere una risposta alla mia domanda su cosa succede a una città globale in tempi di crisi globale andando alla stazione di Kings Cross a prendere un treno per Cambridge. Percorro una stradina cinta dai muri secolari dell'antica università, entro in un sottopasso, salgo scale consunte. Göran Therborn è svedese ed è ordinario di sociologia. Studia le capitali in quanto rappresentazioni del potere e dirige un progetto comparato sulle capitali asiatiche, europee e africane, di cui ha pubblicato un primo volume. Mi fa aspettare che finisca di parlare con uno studente, prima di ricevermi nel suo studio spoglio, dove parliamo per un'ora e mezza, prima d'invitarmi a una cena rapida in un ristorantino turco. Therborn salta a suo agio tra gli edifici monumentali del mondo, dal parlamento di Budapest, fino al palazzo presidenziale del Malawi, fuori Lilongwe («il centro del potere in Africa è spesso fuori dalla capitale»). Per lui il potere delle città globali è sempre basato sullo stato nazionale. La sua è una critica abbastanza esplicita alla tesi di Saskia Sassen sulle «città globali»: «Stimo molto Saskia Sassen, ma la sua città globale era essenzialmente New York, che è un caso unico. Negli altri casi, come Londra e Tokyo, il ruolo di centro di comando dell'economia globale non può essere disgiunto da quello di capitale di uno stato nazionale e imperiale per di più. E la crisi attuale mostra che è sbagliata l'idea secondo cui le città globali sono indipendenti dallo stato nazionale».

L'immagine di Londra che trasmette Therborn è spaesante. Per lui il potere politico vi è storicamente sottostimato: «Londra non ha gli Champs Elysées come Parigi; l'ufficio del primo ministro, al 10 di Downing street, è piccolino, quasi nascosto. Certo, c'è il palazzo reale, ma è quasi discosto: in evidenza c'è il potere dei contribuenti ricchi. Parlando di Londra, si sottovaluta sempre l'eredità dell'impero, si tende a estrapolare dal capitalismo americano. Ma le esperienze sono assai diverse. Se guardi le prime 500 imprese degli Stati uniti, assai poche sono basate a New York, la maggior parte è disseminata in tutti gli Usa. Non così a Londra, a Tokyo, a Parigi, dove è concentrata la quasi totalità delle corporations di quelle nazioni. E poi se guardi al richiamo finanziario di Londra, esso attrae soprattutto le sue ex colonie, il Medio Oriente, e la Russia per la sua storica alleanza. Quando le banche falliscono, le città globali battono cassa dallo stato nazionale. E poi c'è sempre stata una contraddizione tra Londra e il resto dell'Inghilterra. Londra non è mai stata la capitale dell'industria, neanche durante la rivoluzione industriale, neanche all'apogeo dell'impero. L'industria ha sempre avuto il suo centro a nord, Manchester, Liverpool, Leeds. Negli ultimi vent'anni si è diffusa l'immagine di una City ipertrofica su un'economia inglese rachitica: ma appunto, il peana della City è più un'immagine che altro, un effetto dell'autopubblicità che si facevano gli yuppies: la City continua a poggiare sull'ex impero».

«Londra è un'isola nell'isola» mi aveva detto già Kampfner. Da questo punto di vista, le città sono assai antropomorfiche: come ognuno di noi umani è strenuamente convinto della propria insostituibile, irripetibile eccezionalità, così anche le città sono vissute dai propri cittadini ognuna come eccezionale, disobbediente a ogni logica. Ma anche le isole possono venire sommerse dai flutti. E - per quanto lo scivolamento sia impercettibile - è difficile che Londra possa tornare alla sua arroganza e al suo fasto precedenti.


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